SOCIETÀ

L’accoglienza dei migranti in Polonia: le ragioni di un doppio standard

Il 24 febbraio l’aggressione russa all’Ucraina, in violazione degli accordi internazionali, ha sconvolto l’Europa e dato il via a una gara di solidarietà senza precedenti. Gara che la Polonia, con i suoi quasi 700.000 rifugiati accolti dall’inizio della crisi, sembra aver indiscutibilmente vinto. Dal canto suo anche l’Unione Europea ha superato sé stessa, concedendo ai profughi icraina una inedita protezione temporanea (Tpd) per un massimo di tre anni a milioni di persone. Karolína Augustová, PhD in Sociologia e Relazioni Internazionali alla Aston University di Birmingham, ci ricorda però che “non possiamo neanche dimenticare che tutta questa grande solidarietà e questo bellissimo supporto per i rifugiati si regge su un riflesso razzista e sulla solidarietà selettiva”. Soprattutto se si pensa che solo nel novembre 2021 il premier Mateusz Morawiecki, schierava 12.000 uomini dell'esercito tra Bielorussia e Polonia per difendere i confini polacchi ed europei dai migranti provenienti dal Medio Oriente.

In quel caso, più che di crisi migratoria, in Europa si è parlato del tentativo bielorusso di strumentalizzare i migranti per motivi geopolitici. Secondo Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, il governo di Minsk avrebbe tentato di destabilizzare l’Europa e i suoi valori spingendo i migranti verso la frontiera polacca, lettone ed estone. Un doppio standard d’accoglienza, dunque? Due tipi di migranti e due diverse misure? La stessa Varsavia che si mobilita per i profughi ucraini come nessun altro paese europeo, solo pochi mesi prima erigeva muri di filo spinato e lasciava bambini afghani, siriani o pachistani a piedi scalzi nella foresta ghiacciata. La Polonia su quel confine non solo respingeva la proposta di Bruxelles di un sostegno tramite le agenzie Frontex ed Europol, ma proclamava lo stato d’emergenza e bloccava l’accesso a giornalisti e ong. Una contraddizione stridente spiegata con la necessità di “difendere l'identità e i valori europei”. “Si pensa che sia più naturale proteggere ciò che ci appartiene, quindi proteggere questa immagine di noi in quanto europei”, dice Augustová. Ma se questa è la giustificazione allora viene da chiedersi: qual è questa identità e quali sono i valori europei che si vorrebbero tanto difendere? Ma soprattutto: “Perché non stanno funzionando nel modo in cui li abbiamo immaginati?” si chiede Augustová. Cosa è cambiato?

Secondo Cyrille Brent, dello Jacque Delors Institute di Parigi, “il contrasto è enorme tra il muro che la Polonia voleva erigere contro i migranti del Medio Oriente strumentalizzati dalla Bielorussia e l'attuale politica dei rifugiati a favore di milioni di ucraini. Durante la crisi dei rifugiati del 2021, la Polonia ha subito le conseguenze di un fenomeno senza elaborarne le cause. Oggi, la Polonia ha deciso d’essere un attore in protagonista nella crisi”. Le ragioni sono tante. Secondo Augustová prima di tutto c’è la prossimità geografica: “Esiste sicuramente più empatia verso il vicino in difficoltà. Le persone credono che gli ucraini non stiano combattendo solo per il proprio futuro, ma al contrario anche per quello dei Paesi dell’Europa centro-orientale”. Inoltre, gli ucraini sono una minoranza numerosa e influente nei Paesi dell’Europa centrorientale: “Tutti conoscono almeno un ucraino ed esistono forti legami tra i due Paesi. A livello culturale molti giovani ucraini hanno completato i loro diplomi universitari in Polonia, mentre a livello economico provengono dall’Ucraina molti operai nelle fabbriche polacche. Inoltre la maggioranza dei rifugiati ospitati ha legami familiari in Polonia”.

La Storia gioca poi un ruolo fondamentale. La paura dell'imperialismo russo e sovietico disegna una linea di congiunzione tra l’attuale esperienza della guerra in Ucraina e le precedenti invasioni nei confronti dei Paesi dell’ex blocco sovietico. Nel caso della Polonia, il Cremlino è considerato una minaccia almeno dal conflitto russo-polacco del 1919-1921. Durante la Seconda Repubblica di Polonia, indipendente dal 1918, il neo-presidente Pilsudski dichiarò la priorità nazionale: per sopravvivere nel nuovo ordine europeo, sorto dalle rovine del primo conflitto mondiale, la Polonia avrebbe dovuto diventare una potenza regionale oppure sarebbe scomparsa. Ancora oggi, l’obiettivo resta più o meno lo stesso: attirare l'Unione Europea a est, contro la Russia e a favore degli ex Stati comunisti.

Il primo passo per la cesura con il passato sovietico sono gli accordi di cooperazione politica del 1991 con Cecoslovacchia e Ungheria. L’accordo conosciuto prima come “Triangolo di Visegrád, poi “quartetto di Visegrád” o “V4” dopo la divisione della Cecoslovacchia in Repubblica Ceca e Slovacchia, sancisce la scelta europea degli stessi Paesi che tra il 1991 e il 2004 si sono uniti alla Nato e all’Unione Europea. Come sottolinea Cyrille Brent, “la politica dei rifugiati favorisce la leadership regionale della Polonia e la rende più centrale in Europa e nel V4, anche perché l'Ungheria è ambigua sulla Russia”; quindi “la politica dei rifugiati è sì radicata in ragioni umanitarie, ma può anche essere un punto di svolta strategico: proteggendoli la Polonia sta guadagnando terreno nella regione e nell'Ue. Con la guerra in Ucraina, essa non è più alla periferia dell'Europa ma al suo centro strategico, tra lo spazio baltico, l'Europa centrale e il fianco orientale della Nato”.

Non usa mezzi termini Karolína Augustová: “Chiunque stia aiutando i rifugiati ucraini è una sorta di eroe, mentre in generale chi aiuta i migranti è considerato un traditore”. Secondo la sociologa “la narrazione politica oggi parla di rifugiati prodotti dalla crisi, mentre solo pochi mesi prima politici e media parlavano di crisi dei rifugiati: non persone che subiscono la crisi ma che la producono sulle frontiere. Questo discorso pubblico è molto importante perché determina chi è benvenuto e chi no, chi causa problemi e chi scappa dai problemi, quindi per chi dovremmo aprire le frontiere o contro chi dovremmo chiuderle”. La decisione è cruciale e per Cyrille Brent “l'attuale crisi dei rifugiati dimostra che non ci può essere una doppia politica in Europa nei confronti dei richiedenti asilo. La discriminazione in base all'origine etnica o all'identità religiosa, o addirittura al colore della pelle, appare ormai insostenibile”. Ciò significherà modificare quello che Karolína Augustová ha descritto appunto come doppio standard. Dal suo punto di vista “la cultura europea e l’identità europea in generale si reggono sulla divisione tra un noi e un loro. Per esempio i Balcani, ma anche l’Ucraina o i Paesi più a sud-est del continente, sono sempre stati visti come i meno sviluppati, gli ‘ultimi europe’i, persone che dovrebbero in un certo senso progredire per diventare veramente tali. Questa divisione culturale e identitaria si vede di più nei confronti delle popolazioni extraeuropee, ma è presente anche all’interno dell’Europa”. Basti pensare al caso della cosiddetta Balkan Root, la via che i migranti percorrono attraverso i Balcani occidentali per raggiungere la ricca Europa. Gli stessi bosniaci musulmani che trent’anni fuggirono dalla guerra, ricevendo una straordinaria dimostrazione di solidarietà in Europa, oggi respingono, se non addirittura rinchiudono nei campi, altri musulmani esuli da altri conflitti.

Da questo punto di vista è molto rivelatorio che per i profughi ucraini è stato messo nero su bianco come si tratti di una solidarietà con una precisa scadenza: “È una visione politica limitata – dice Augustová – stabilita per legge fino a tre anni. Gli ucraini possono restare e hanno garanzie, sono supportati, ma solo per quel periodo e vedremo cosa accadrà, se sarà prolungata o no”. Quanto durerà quest’onda anomala di solidarietà nei confronti dei rifugiati ucraini? Augustová è pessimista, vede già segnali d’intolleranza nel suo paese d’origine, la Repubblica Ceca. “Inizia il disagio, molte persone non sono contente che troppi ucraini siano nelle loro città e si lamentano per il sostegno economico che il governo concede loro e non alle persone del posto in difficoltà. Quindi la divisione sta diventando più evidente. La risposta emozionale di solidarietà calerà e le divisioni e il razzismo diventeranno più evidenti. Anche prima della guerra gli ucraini lasciavano il Paese per lavorare, spesso in condizioni orribili, e le persone del posto non erano molto accoglienti con loro. Gli ucraini che vivevano in Repubblica Ceca e in altri Paesi prima della guerra erano trattati come ‘gli altri europei’, la ‘spazzatura dell'Europa’”, dice la sociologa che da anni studia il fenomeno migratorio europeo. “Per esempio in Repubblica Ceca venivano chiamati Úkáčka. Non erano considerati europei, ma migranti economici con lavori poveri, sottopagati e senza contratto che venivano a fare soldi per le loro famiglie, ubriacarsi…”. Una narrativa che in parte persiste ancora oggi e che potrà essere ribaltata, forse, solo con la “riscoperta” di che cosa significa essere davvero europei.

Il Bo Live ospita una serie di articoli degli studenti che hanno partecipato al laboratorio di giornalismo sulla crisi ucraina, organizzato da Elena Calandri nell’ambito del corso di laurea magistrale in Relazioni internazionali e diplomazia (Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali) sotto la supervisione di Marzio G. Mian.

 

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