SOCIETÀ

La lezione di Sergio Marchionne

Si narra che la prima iniziativa presa da Marchionne nel giugno del 2004 appena arrivato in Fiat che versava in una situazione prefallimentare fu quella di convocare una riunione della prima linea manageriale presso un albergo in una località turistica della Riviera ligure. Puntuali i manager si presentarono e con loro grande disappunto trovarono l’albergo chiuso. Si attaccarono ai cellulari per controllare se avessero sbagliato indirizzo. Nel frattempo arrivò Marchionne che disse: “Nessun disguido. L’albergo è questo ed è chiuso perché voi adesso entrerete e avrete due giorni per rimetterlo in funzione. Alla fine avrò capito chi ha le caratteristiche per continuare a coprire ruoli direzionali in Fiat, azienda che deve essere rivoltata come un calzino”. Alcuni se ne andarono prima ancora di provare a fare qualcosa. Vero o romanzato che sia questo racconto, esprime bene l’approccio di Marchionnerompere gli schemi, sfidare la continuità, ripensare i ruoli di tutti

L’improvvisa scomparsa di Marchionne ha suscitato commozione, ammirazione e umana solidarietà ma ha anche riaperto una discussione sul suo ruolo in Fiat e sul tipo di risanamento da lui attuato. Gli si rimprovera di aver portato la Fiat fuori dall’Italia, di non aver osato abbastanza, di aver fatto scelte conservative sui propulsori elettrici. Forse si poteva fare meglio e diversamente ma quello che è certo è che se Marchionne non avesse scelto di proiettare il gruppo torinese in una dimensione globale oggi la Fiat non esisterebbe più.

Globalità e meritocrazia

In questi tristi giorni alcuni settori, invero minoritari, stanno riesumando una polemica su alcune prese di posizione di Marchionne che lo portarono a rompere con i sindacati, a uscire dalla Confindustria, a scegliere strategie da azienda globale. Gli veniva rimproverata una sorta di ingratitudine che non teneva conto degli ingenti trasferimenti pubblici di cui aveva in passato goduto la sua azienda. A leggere certi commenti c’è da chiederci, aggiornando e parafrasando Giovanni Agnelli, se quello che ha fatto bene alla Fiat possa davvero aver fatto male all’Italia. 

La risposta è no. Marchionne ha dimostrato all’Italia, alla famiglia Agnelli, ai molti stakeholder che soffocavano la Fiat in un abbraccio mortale che si poteva uscire dalla crisi solo attraverso una prospettiva di apertura ai mercati globali, di crescita dimensionale, di governance adeguata all’accelerazione dei cambiamenti tecnologici e culturali, di un management veramente internazionale, selezionato e remunerato con criteri rigorosamente meritocratici.   

I sostegni all’auto, che ci sono stati in misura rilevante in varie epoche storiche, sono andati a beneficio di tutti e non solo per il ruolo di volano giocato nell’industria italiana dalla Fiat, un’azienda troppo grande per essere abbandonata alla congiuntura e alle severe vendette dei mercati per gli errori strategici del management. Errori che erano stati facilitati, se non proprio indotti, da carenze della struttura economica del Paese che lo rendevano “auto-dipendente”. A queste si erano per molti anni aggiunte pressioni politiche e sindacali che ponevano a carico della Fiat i costi di un laboratorio sociale gestito con modalità consociative che avevano impigrito i suoi manager e fornito poderosi alibi alla loro mancanza di fantasia strategica. Marchionne aveva rotto con tutto ciò. 

La direzione del cambiamento

Quando Marchionne rivendicava la libertà di localizzare la produzione dove esistevano le condizioni per farlo con profitto la sua attenzione era rivolta a tutta la catena del valore, come del resto fece quando da Torino la sua squadra impostò la spettacolare ripresa di Chrysler o tornò in Italia per investire su Pomigliano e rilanciare alcuni brand storici della Fiat. Nelle catene del valore globali il segmento della produzione ha da tempo ceduto parte della centralità di un tempo a favore del marketing, la ricerca e sviluppo, la finanza, la distribuzione. Nessuno, neanche Trump, si sogna di affermare che Apple delocalizza la produzione nei paesi asiatici anche se non produce quasi nulla in Usa. Nessuno, neanche Macron, si sogna di affermare che Bernard Arnault delocalizza in Italia anche se le scarpe delle griffe di Lvmh sono prodotte in Riviera del Brenta. Apple e Lvmh, proprio grazie a queste scelte produttive, continuano a creare nei loro Paesi molti posti di lavoro (pregiati) e profitti. 

La durezza, ma sarebbe più opportuno dire il rigore, con cui Marchionne rivendicò un criterio aziendale di distribuzione delle sua attività servì a far capire alle famiglie imprenditoriali, a Confindustria e ai sindacati la direzione del cambiamento; servì a salvare o a riportare in Italia molti più posti di lavoro di quelli che si sarebbero avuti con soluzioni diverse; servì a riposizionare il Gruppo e l’Italia sulle parti più pregiate della catena del valore dell’auto (Ferrari, Maserati e Jeep).  

Ibridare culture e competenze

Alcuni dati biografici di Marchionne possono fornire ai più giovani lettori de Il Bo Live alcuni stimoli su come creare le competenze che sono utili per la costruzione di una carriera manageriale di successo. In primo luogo balza agli occhi la formazione ibrida ricevuta da Marchionne. Accanto a una laurea in discipline economiche egli aggiunse una laurea in filosofia e una in giurisprudenza. Questa formazione gli fornì una capacità di analizzare un problema sotto diverse angolature ma sviluppò anche la capacità di visione

Mai come oggi i giovani hanno avuto la possibilità di costruire percorsi di studio che ibridano metodi, linguaggi, culture. La prospettiva internazionale fu un portato delle vicende della sua famiglia, espatriata in Canada, ma l’indicazione che ne deriva può essere perseguita dai nostri giovani che mai come oggi hanno avuto occasioni di studio e lavoro all’estero. 

Un altro spunto interessante proviene dalle sue prime esperienze professionali. Il suo primo impiego fu presso una società di revisione, la Deloitte & Touche. La familiarità con le problematiche di bilancio si è dimostrata preziosa per diagnosticare rapidamente lo stato di un’azienda e per costruire strategie di riposizionamento praticabili e sostenibili. Noto per inciso che l’iniziale esperienza in grandi società di revisione contabile accomuna la fase iniziale delle carriere di due grandi manager veneti con grandi capacità di visione strategica: Gianni Mion, artefice della costruzione di Edizione, la maggiore holding privata italiana di investimento, iniziò la carriera alla Peat Marwick e Stefano Beraldo, artefice del risanamento del Gruppo Coin, iniziò alla Arthur Andersen. Nel novembre 2007 il CUOA conferì a Marchionne il Master Honoris Causa in Business Administration. Gli consegnò il diploma l’allora presidente del CUOA Vittorio Mincato (vedi foto), un manager vicentino divenuto amministratore delegato dell’Eni, colosso mondiale degli idrocarburi, dove era entrato in amministrazione dopo una breve esperienza in Lanerossi come contabile. 

 

Gli studenti di discipline economico-manageriali che ambiscono a coprire posizioni strategiche dovrebbero ricavarne l’insegnamento che in azienda non è importante la posizione di partenza ma quella di arrivo. E che alcune posizioni come quelle amministrative, a torto ritenute ancillari, possono invece rivelarsi la chiave del successo per chi sa alzare la testa oltre i numeri.  

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