SOCIETÀ

Migranti in Europa: tra bugie, crisi di governo e frontiere di gomma

La questione migranti resta una spina senza alcuna rosa intorno per diversi stati europei. L’avanzata poderosa dei governi di destra, o comunque più marcatamente conservatori, ha impresso al tema un approccio globale ancor più intransigente rispetto al più recente passato: c’è sempre meno spazio per gli immigrati, sempre meno “politica” ad occuparsi di loro. L’Unione Europea litiga e si spacca sulle “quote” (Ungheria e Polonia stanno bloccando l’accordo su migrazioni e asilo), mentre stringe accordi (soprattutto economici) per spostare le sue frontiere in Turchia, in Libia, in Tunisia: a quale prezzo (di vite, di rispetto dei diritti umani), non è dato sapere. Si parla, con fastidio crescente, molto più di emergenza che di accoglienza. Come se i rifugiati avessero perso improvvisamente qualsiasi diritto. Per dirla con le parole usate dal primo ministro polacco Mateusz Morawiecki: «È in corso un attacco all’Europa. I confini dell’Europa non sono sicuri. È in gioco la sicurezza degli abitanti del nostro continente». Una narrazione che quotidianamente s’intreccia con la giostra della cronaca, tessere di un unico puzzle legate tra loro da un fil rouge (rouge scuro). Dalla Grecia all’Italia, dai Paesi Bassi (dove il governo è caduto proprio sulla questione migranti) a quelli intransigenti dell’Est, passando per il Regno Unito, che ha, o meglio avrebbe, deciso tout court la deportazione in Rwanda di qualsiasi essere umano che tenti di varcare quei confini, a prescindere dallo stato di effettiva necessità, e in barba a qualsiasi trattato internazionale: decisione già bocciata dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu).

Naufragio in Grecia, la Guardia Costiera ha mentito

Andiamo con ordine, partendo dalla Grecia. Dai risultati di diverse inchieste, giornalistiche, arriva la conferma di quel che l’UNHCR (l’agenzia Onu per i rifugiati) aveva già avanzato, come sospetto, fin dalle ore immediatamente successive al naufragio del peschereccio stracarico di migranti, affondato al largo dell’isola di Pylos, lo scorso 14 giugno. Analizzando i dati di navigazione degli scafi, le foto aeree, i documenti ufficiali e le dichiarazioni dei sopravvissuti, le indagini (una coordinata dalla Bbc, un’altra dal Guardian, un’altra ancora dalla Cnn e da El Pais), dimostrano tre punti incontrovertibili: l’intervento tardivo della Guardia Costiera greca (dopo 19 richieste di soccorso deliberatamente ignorate). Il traino “sconsiderato” dell’imbarcazione non verso il lembo di terra più vicino dove far sbarcare i 750 migranti (almeno) stipati a bordo, ma verso le acque di competenza italiana, così da potersene lavare le mani. E infine le menzogne, nelle ricostruzioni “ufficiali” dei portavoce della Guardia Costiera greca, di quanto accaduto nella «più grande tragedia avvenuta nel Mediterraneo», come la definì la commissaria Ue per gli Affari interni, Ylva Johansson. Appena in 104 riuscirono a salvarsi. Soltanto 82 furono i corpi recuperati. Il peschereccio era salpato dalla Libia cinque giorni prima del naufragio: nella stiva c’erano donne (molte delle quali incinte) e uomini, bambini e adolescenti, rifugiati provenienti dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Egitto. Quasi un copia-incolla con la strage di Steccato di Cutro, avvenuta in acque italiane lo scorso febbraio, quando un barcone in legno di 25 metri, la “Summer Love”, partito dalla Turchia con a bordo circa 200 persone si era spezzato in due a pochi metri dalla riva del litorale, in provincia di Crotone. Anche in quel caso tra la segnalazione della barca in difficoltà e l’intervento dei soccorritori erano trascorse ore che si sono rivelate fatali, complice anche il maltempo. Le vittime furono 94, tra le quali 35 bambini. Secondo un’inchiesta di Lighthouse Reports, «l’Italia ha mentito» nella ricostruzione degli eventi.

Tornando al naufragio di Pylos, la domanda successiva è: chi ha dato gli ordini? Quale catena di comando ha spinto la Guardia Costiera greca a ignorare ben 19 richieste di soccorso, limitandosi a “monitorare” per ore la situazione, per inviare infine una motovedetta (con uomini armati e il volto coperto da passamontagna, secondo quanto riferito da molti superstiti) che invece di soccorrere i migranti ha agganciato con una corda il peschereccio in avaria trainandolo a gran velocità verso l’Italia, con una manovra a tal punto sconsiderata da farlo rovesciare? La Grecia, dopo aver sostenuto che l’imbarcazione aveva “rifiutato per ore qualsiasi forma di assistenza”, ha avviato una doppia indagine: una su 9 egiziani sopravvissuti sospettati di aver agito come scafisti, mentre l’altra, del Tribunale Marittimo, si soffermerà sull’operato della Guardia Costiera. Ma Dimitris Kairidis, appena nominato ministro dell’immigrazione (dopo la vittoria del partito di centro-destra Nuova Democrazia alle elezioni dello scorso 25 giugno) ha già fatto capire quale sarà la postura del governo greco, con la promessa di «estendere un muro lungo il confine greco-turco» e di continuare a pattugliare rigorosamente nel Mediterraneo orientale per fermare le imbarcazioni che trasportano migranti. Il responsabile dei diritti fondamentali di Frontex, l’agenzia di frontiera dell'Unione europea, ha consigliato di sospendere temporaneamente le attività in Grecia in segno di “disaccordo” con le procedure adottate dalle autorità greche.

Bocciata la “stretta” dei Paesi Bassi

Anche il premier olandese Mark Rutte è inciampato sui migranti. Il governo di coalizione olandese non è riuscito a trovare un accordo, e a superare le differenze, sulla decisione del primo ministro (leader del partito conservatore-liberale Vvd) d’inasprire le norme sui ricongiungimenti familiari per i rifugiati già residenti nei Paesi Bassi. In sostanza l’obiettivo di Rutte era quello d’inserire un doppio binario di accoglienza: uno temporaneo (per le persone in fuga dai conflitti) e uno permanente (per chi dimostrava di rischiare persecuzioni. Ma comunque di limitare i ricongiungimenti familiari, una norma da usare come “freno d’emergenza” qualora si fossero creati problemi di “sovraffollamento”. Com’era avvenuto l’anno scorso con la crisi nel centro di accoglienza di Ter Apel, nel nord-est dei Paesi Bassi, con centinaia di persone ammassate all’esterno del centro in drammatiche condizioni sanitarie e igieniche (un bambino di 3 anni era morto). Le domande di asilo nei Paesi Bassi sono aumentate di circa un terzo l’anno scorso, superando quota 46.000, ma si prevede che quest’anno possano arrivare a 70.000.

Ma l’idea di bloccare i ricongiungimenti è stata drasticamente respinta dal partito di coalizione minoritario ChristenUnie, Unione Cristiana). Anche i D66 (partito sociale-liberale, sostanzialmente di destra sulle questioni economiche, ma progressista su quelle sociali) hanno votato contro la proposta del Vvd. «Penso che siano state introdotte tensioni inutili», ha dichiarato Sigrid Kaag, attuale ministro del commercio estero ed esponente di punta dei D66. Mentre Pieter Heerma, leader del partito Christian Democratic Appeal, ha definito l’approccio del primo ministro nei colloqui «quasi avventato», come se avesse preteso dai partner di minoranza un sostegno a prescindere: ma l’ultimatum gli si è ritorto contro. Mark Rutte, il premier più longevo nella storia politica olandese, in carica dal 2010 attraverso quattro successivi governi di coalizione (l’ultimo si era insediato nel gennaio 2022), non l’ha presa bene. Non soltanto si è dimesso, aprendo la strada a nuove elezioni che si dovrebbero svolgere il prossimo autunno. Ma ha anche annunciato che lascerà la politica. «Ho deciso che non sarò più disponibile come leader del Vvd», ha dichiarato. «Dopo le elezioni, quando si formerà un nuovo governo, lascerò la politica attiva». Rutte, che ieri ha comunque partecipato a Vilnius al vertice della Nato, è uno dei “falchi” dell’Unione Europea. Un mese fa era volato in Tunisia, in compagnia della premier italiana Giorgia Meloni e della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, offrendo al dittatore Kais Saied un sostanzioso aiuto economico (oltre un miliardo di euro) in cambio di  controlli “più rigorosi” alle loro frontiere.

Frontiere di gomma nel Regno Unito

Terza tessera del puzzle: il Regno Unito. Che rappresenta quasi l’emblema dell’attuale approccio alla questione migranti dei governi conservatori europei: la rimozione, potremmo definirla “fisica”, del problema. A qualsiasi prezzo. L’idea originaria va ascritta a Boris Johnson, ma l’attuale premier, Rishi Sunak, l’ha fatta completamente sua. In sostanza si tratta del tentativo di tradurre in pratica il concetto di “frontiera di gomma”: vuoi entrare nel paese? Vieni immediatamente respinto (rimbalzato) altrove. Indipendentemente dalla tua storia personale, dall’età, dal genere. Nel caso britannico, il respingimento sarebbe effettuato in Rwanda, nazione dell’Africa orientale, ex colonia tedesca, poi belga dal 1919, indipendente dal 1962. Una procedura che calpesta il principio del “diritto di asilo”, garantito dall’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, mentre l’articolo 19 “vieta le espulsioni collettive e protegge gli individui dall’allontanamento, dall’espulsione o dall’estradizione verso uno Stato in cui esiste un grave rischio di pena di morte, tortura o altre pene o trattamenti disumani o degradanti”. La Corte europea dei diritti umani aveva bloccato già lo scorso anno i piani britannici e i primi voli di deportazione (e infatti il Regno Unito ha minacciato di uscire dalla Corte, per non doverne più subire gli ammonimenti). A dicembre invece l’Alta Corte di Londra aveva definito “legittimo” il piano britannico, pronuncia che aveva segnato un punto a favore per le politiche di “tolleranza zero” imposte da Downing Street, nonostante la netta contrarietà espressa da re Carlo III (è un piano “spaventoso”, aveva detto). Pochi giorni fa, una nuova sentenza, questa volta di un tribunale di Corte d’Appello, che ha definito “illegale” il progetto del governo non tanto sul principio della deportazione, quanto sulla definizione del Rwanda come “paese sicuro”. Il premier Sunak, che non si arrende, si è dichiarato «fondamentalmente in disaccordo» con le conclusioni del tribunale. «Credo fermamente che il governo rwandese abbia fornito le garanzie necessarie per garantire che non vi sia alcun rischio reale che i richiedenti asilo ricollocati vengano poi erroneamente rimandati in paesi terzi», ha poi aggiunto Sunak. «Il Rwanda è un paese sicuro. E la nostra politica è molto semplice: è il Regno Unito che dovrebbe decidere chi viene qui, non le bande criminali. E farò tutto il necessario per far sì che ciò accada».

La parola d’ordine dei governi conservatori, che sempre più si sta consolidando, è dunque “esternalizzare”: le frontiere e, in alcuni casi. gli stessi migranti: spedirli altrove o evitare direttamente di farli partire, con le buone o, più verosimilmente, con le cattive. E quando arrivano cacciarli via (fino a farli annegare?), respingerli, far capire loro che “non li vogliamo”. Una somma di stati di polizia, con muri ben alti e agenti armati, senza più regole umanitarie a fare da contrappeso. Chiaramente una violazione dei diritti umani, ma l’argomento sembra essere passato di moda. Open Migration, sito d’informazione italiano che si occupa di diritti umani e di libertà civili, che studia il fenomeno delle migrazioni e dei rifugiati, ha appena pubblicato un report nel quale denuncia l’accordo tra Unione Europea e Turchia sui respingimenti dei migranti alle frontiere “esterne”. Con l’UE «che continua a elargire enormi finanziamenti alla Turchia, noncurante della totale negazione dei diritti umani fondamentali degli individui». Si legge inoltre nel report: «Il rapporto tra l’Unione Europea e la Turchia non costituisce un fatto isolato. Le politiche dell’Unione e dei suoi stati membri mirano ad allontanare per quanto possibile la pressione migratoria dalle proprie frontiere, e uno dei sistemi ritenuti più efficaci è quello degli accordi con i paesi di provenienza e di transito delle persone che si muovono verso l’Europa. L’esternalizzazione del controllo delle frontiere è l’insieme delle azioni economiche, giuridiche, militari, prevalentemente extraterritoriali, volte ad impedire che i migranti (compresi i richiedenti asilo) possano entrare nel territorio di uno Stato e quindi di usufruire delle garanzie, anche giurisdizionali, previste». Con buona pace del Trattato di Lisbona, entrato in vigore l’1 dicembre del 2009, che tratteggiava il “disegno europeo” originario in tema di cittadinanza: un’Unione che avrebbe dovuto fondarsi “sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Appena tredici anni dopo, bisogna usare il condizionale: così quel Trattato rischia di diventare, a breve, carta straccia.

 

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