CULTURA

Myanmar: cosa sta succedendo

Il colpo di Stato era nell’aria da alcuni giorni. Il primo, esplicito, allarme internazionale l’aveva lanciato venerdì scorso il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres: «Seguo con grande preoccupazione i recenti sviluppi in Myanmar», aveva dichiarato, invitando le parti «a desistere da qualsiasi forma di incitamento o provocazione e a rispettare il risultato delle elezioni generali dell'8 novembre».

Appello inutile: Aung San Suu Kyi, leader del governo birmano, capo della Lega Nazionale per la Democrazia (Lfd) e premio Nobel per la pace nel 1991, è stata arrestata nella notte (ora italiana) tra domenica e lunedì dai militari, che da settimane denunciavano presunti brogli nelle elezioni legislative, stravinte dalla Lfd. Tutti i poteri sono stati trasferiti al generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate. La presidenza ad interim è stata affidata a un altro generale, Myint Swe, uno dei due vicepresidenti già in carica. I golpisti hanno proclamato uno stato d’emergenza per un anno, al termine del quale saranno indette nuove elezioni “libere e regolari” . Bloccati gli aeroporti. Chiuse, fino a nuovo ordine, tutte le banche. Sospesi i servizi bancomat. Bloccata la rete internet e telefonica. Mentre truppe in divisa pattugliano le strade delle principali città. Assieme a San Suu Kyi, che sarebbe detenuta a Naypyidaw, capitale della Birmania, sono stati arrestati anche diversi ministri del governo, funzionari, esponenti del partito Lfd, oltre ad attivisti e scrittori. La portavoce di Aung San Suu Kyi, Myo Nyunt, ha riportato una sua dichiarazione scritta pochi minuti prima di essere arrestata: «Non arrendetevi al golpe. Esorto la popolazione a rispondere e a protestare con tutto il cuore contro il colpo di Stato dei militari: vogliono riportare il paese sotto una dittatura». La leader birmana si sarebbe dovuta insediare proprio oggi, con la riunione inaugurale del nuovo Parlamento. L’ambasciata americana ha diffuso in queste ore un “allarme sicurezza” per il rischio potenziale di una rivolta civile.

Unanime la reazione internazionale

La notizia del golpe ha scatenato un’onda di reazioni in ogni angolo del mondo. Il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha chiesto l’immediato rilascio di tutti i funzionari governativi e dei leader della società civile fermati dai militari. La portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha dichiarato: «Gli Stati Uniti si oppongono a qualsiasi tentativo di alterare il risultato delle recenti elezioni o di impedire la transizione democratica del Myanmar, e agiranno contro i responsabili se questi passi non verranno annullati. Stiamo monitorando da vicino la situazione e siamo al fianco del popolo birmano». Unanime condanna dall’Unione Europea («L'esito delle elezioni deve essere rispettato e il processo democratico deve essere ripristinato», ha twittato Charles Michel, presidente del Consiglio Ue), dal Regno Unito (per Boris Johnson «la detenzione della signora Suu Kyi è illegale»), dall’India («Siamo risoluti nel sostegno al processo di transizione democratica in Myanmar»), dalla Cina («Speriamo che le parti possano gestire le loro differenze all'interno del quadro costituzionale e legale e sostenere la stabilità», ha dichiarato il ministero degli Esteri), dal Bangladesh («Auspichiamo il proseguimento del processo di rimpatrio volontario dei rifugiati Rohingya»), oltre che da Giappone, Malesia, Filippine, Cambogia, Indonesia.

L’innesco del golpe è scattato con lo straordinario successo della Lega Nazionale Democratica alle ultime elezioni (83% dei voti), a scapito del Partito dell'Unione, della Solidarietà e dello Sviluppo (Usdp), sostenuto dai militari, che aveva ottenuto appena il 14% dei consensi (aggiudicandosi  33 seggi su 476). Si trattava del secondo voto democratico (il primo era stato nel 2015, con analoghi risultati) da quando il paese, nel 2011, era riuscito a divincolarsi dalla morsa isolazionista di un governo militare durato quasi 50 anni. Ma il risultato di novembre è andato di traverso ai militari (chiamati “Tatmadaw”), che avevano immediatamente (e genericamente) parlato di brogli e di irregolarità (peraltro smentiti dagli osservatori internazionali, che avevano certificato la correttezza delle operazioni), chiedendo la ripetizione del voto. Un voto “sentito” dalla popolazione locale come una sorta di referendum tra governo democratico e giunta militare. Con un esito talmente netto e indiscutibile che soltanto con le armi, e con la violenza, si sarebbe potuto sovvertire. E ora il futuro per l’ex Birmania appare assai incerto. Thant Myint-U, storico birmano, scrittore, ex funzionario delle Nazioni Unite, ha così commentato a caldo alla Cnn: «Ho la sensazione che nessuno sarà davvero in grado di controllare ciò che verrà dopo. E ricordo che il Myanmar è un paese inondato di armi, con profonde divisioni tra linee etniche e religiose, dove milioni di persone riescono a malapena a nutrirsi». «Il popolo del Myanmar ha vissuto decenni di brutale governo militare», ha invece precisato Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani per il Myanmar. «Stanno attraversando una pandemia. L'economia è in condizioni difficilissime. È così incredibilmente ingiusto per loro dover passare attraverso questo».

La figura controversa di San Suu Kyi

Secondo il New York Times il colpo di stato riporta il paese al pieno governo militare dopo un breve esperimento di semi-democrazia. Perché lo scotto da pagare, per l’uscita definitiva dal regime militare, è stata una sorta di co-abitazione, un mix tra democrazia e potere militare, che evidentemente non ha dato i frutti sperati. Al punto che la stessa Aung San Suu Kyi, nata nel 1945, figlia dell'eroe indipendentista Aung San (assassinato quando lei aveva due anni, poco prima che il Myanmar ottenesse l'indipendenza dal dominio coloniale britannico nel 1948), premio Nobel per la pace nel 1991, icona dei più fragili, attivista simbolo per i diritti umani, lei stessa detenuta in carcere per 15 anni dal regime militare cui si opponeva, era finita nel mirino delle diplomazie internazionali perché si era trovata a (dover?) difendere l’operato della giunta militare, contestando l’accusa di violenze e abusi commessi nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya (l’Onu l’ha definito “un esempio di pulizia etnica”). Ma è indiscutibile che Suu Kyi, in qualità di consigliere di Stato del Myanmar, abbia esplicitamente negato il genocidio difendendo il suo Paese davanti al tribunale delle Nazioni Unite, all’Aia. Una posizione che ha creato sconcerto, al punto che lo scorso anno l’Unione Europea aveva sospeso la sua partecipazione agli eventi del premio Sakharov (che frequentava per averlo vinto quel premio, nel 1990) come risposta «alla sua incapacità di agire e alla sua accettazione dei crimini in corso contro la comunità Rohingya in Myanmar». E non si tratta soltanto di crimini del passato. Secondo Amnesty International più di 750.000 rifugiati Rohingya, in maggioranza donne e bambini, sono entrati in Bangladesh dopo che le forze del Myanmar hanno lanciato una brutale repressione contro la minoranza musulmana nell’agosto 2017. Da quella data a oggi quasi 24mila musulmani Rohingya sono stati uccisi dalle forze statali del Myanmar, secondo un rapporto dell’Ontario International Development Agency (OIDA), dal titolo “Forced Migration of Rohingya: The Untold Experience”, che parla di stupri, gente gettata nel fuoco, villaggi rasi al suolo. Comportamenti sotto indagine proprio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia de l’Aia.

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