SOCIETÀ

In Myanmar la resistenza continua e si arma

Tre dita alzate, contro un esercito di 350mila soldati.  Tre dita, con pollice e mignolo raccolti, come simbolo di resistenza (preso in prestito dalla saga di Hunger Games) per dire no al golpe militare che da cinque mesi sta strangolando e terrorizzando il Myanmar. Le alzano studenti, manifestanti, tutti coloro che non possono più sopportare in silenzio i soprusi e le violenze del “Tatmadaw”, l’esercito birmano, tanto attrezzato numericamente e militarmente quanto feroce nel reprimere qualsiasi forma di ribellione. Sui manifesti dei dimostranti c’è sempre il volto di Aung Sang Suu Kyi, leader della NLD (National League for Democracy) che aveva stravinto le elezioni dello scorso novembre, ma che oggi è in arresto, accusata di crimini tanto improbabili (dal possesso illegale di walkie-talkie all’istigazione dell’opinione pubblica) quanto pericolosi (rischia una condanna complessiva a 42 anni). Lei e il resto del “National Unity Government of the Republic of the Union of Myanmar” sono stati spazzati via dalla giunta militare insediata dal generale Min Aung Hlaing, in nome di presunti, e mai provati, brogli elettorali.  

Dallo scorso febbraio sono state innumerevoli le manifestazioni pacifiche, di protesta contro il golpe che ha ribaltato l’esito delle votazioni, ma che l’esercito ha ritenuto di dover stroncare con la più brutale ferocia, con migliaia di dimostranti arrestati, torturati o direttamente assassinati, anche senza un perché (tra le vittime accertate ci sono anche decine di bambini). Ora però la resistenza sta cambiando pelle. Le milizie contrarie alla dittatura militare stanno convergendo in un’unica formazione, la Forza di difesa del popolo, guidata proprio dai politici estromessi dal golpe militare, che può contare anche sull’appoggio di svariati gruppi etnici. L’intento è comune: combattere le forze armate dell’esercito e favorire la restaurazione del governo legittimo (il National Unity Government). Resistenza non più pacifica, ma armata: scontri si sono verificati la scorsa settimana a Mandalay, la seconda città più grande del paese, ma i combattimenti sono segnalati anche a Yangon, a Mindat e in diverse zone di campagna. Sia il Tatmadaw sia i miliziani denunciano regolarmente perdite nel campo opposto, smentendo quelle nel proprio. Ma avere conferme ufficiali è pressoché impossibile. Restano i frammenti dei racconti dei testimoni, che in qualche modo filtrano, soprattutto sui social. Le vittime di queste battaglie sarebbero centinaia.

Il Myanmar è sull'orlo del fallimento

Guerra civile e paese in default

Gli analisti parlano ormai apertamente di “guerra civile”. Perché il Myanmar (o Birmania, è praticamente indifferente: il nuovo nome fu introdotto nel 1989 all’indomani di uno dei tanti colpi di stato militari) non ha mai accettato l’esito del golpe. Si è opposto ai militari. Ha disobbedito. E più cresce la resistenza, più il paese rischia di scivolare nel caos, sia da un punto di vista sociale, sia economico.  «Il Myanmar è sull'orlo del fallimento», sostiene Richard Horsey, uno dei massimi esperti della regione, ex funzionario delle Nazioni Unite, ora consigliere senior presso l’International Crisis Group (ICG). «Questa non è iperbole o retorica: è la mia valutazione sobria di ciò che probabilmente sta per accadere. La stragrande maggioranza della popolazione non vuole un governo militare e farà tutto il necessario per impedire questo risultato».

In un nuovo rapporto pubblicato pochi giorni fa lo stesso ICG dedica un capitolo al «rapido emergere delle milizie e la loro capacità di evolversi da gruppi di persone locali vagamente coordinati in forze più strutturate, meglio armate e finanziate». Più che veri scontri a fuoco, la specialità delle milizie è intervenire nelle aree urbane con «attività in stile guerriglia, esplosioni, omicidi, azioni segrete, piuttosto che combattenti di massa. E queste milizie non sono necessariamente tutte antimilitari. Ma lo diventano perché il Tatmadaw, continua a scagliarsi alla cieca contro i civili. Così ognuno fa da sé, con un carico di violenza e rancore che l’Assistance Association for Political Prisoners, un'organizzazione no-profit per i diritti umani con sede a Mae Sot, in Thailandia, tenta giornalmente di stimare: all’1 luglio sono 885 le persone “uccise dalla giunta militare”, 5195 le persone arrestate o condannate, circa duemila quelle sfuggite alla cattura. 

 

Perfino pregare per la pace è diventato un reato

Poi c’è il problema degli sfollati: perché la reazione dissennata dell’esercito del Myanmar agli assalti delle milizie, con rappresaglie indiscriminate contro la popolazione civile, attaccata con raffiche di artiglieria e con elicotteri da combattimento, ha spinto decine di migliaia di birmani a lasciare le proprie case, i propri villaggi. Di loro si sa poco o nulla. E non esistono le minime condizioni di sicurezza per poter intervenire, come è scritto nello stesso rapporto dell’International Crisis Group: «Le reti locali e le agenzie umanitarie non sono in grado di assistere adeguatamente queste persone a causa delle restrizioni di sicurezza e di accesso, compresi gli arresti militari, la confisca dei rifornimenti e l’uccisione di coloro che cercano di fornire aiuti». Perfino pregare per la pace è diventato un reato: l’esercito birmano ha arrestato poche ore fa tre Pastori della Chiesa cristiana battista, colpevoli di aver guidato un incontro di preghiera per chiedere, appunto, la pace in Myanmar.

Guerriglia fuori controllo

La situazione rischia così di sfuggire di mano. Senza regole, senza nessuno che rispetti le leggi: uno stato al collasso. «Oggi il Myanmar non può garantire la legge e l’ordine di base, lo stato di diritto. Non può fornire servizi pubblici, sanità e istruzione», spiega ancora Richard Horsey. Ma attenzione anche alle milizie e alla loro rabbia fuori controllo: «Quando la società supera una certa soglia di violenza, vuol dire aver liberato forze che non potrai controllare in seguito. Crei un gruppo di persone armate, violente, che cercano di rovesciare l’ordine esistente per ragioni molto comprensibili, ma che sentono di avere in qualche modo il diritto di essere il giudice, la giuria e il boia, perché è questo che stanno facendo le bande nelle aree urbane».

Il problema ora è individuare una strada per uscire da questa situazione. Lo scorso 18 giugno l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato a maggioranza una risoluzione nella quale si condannano le violazioni dei diritti umani commesse dalla giunta militare birmana dopo il colpo di stato e si chiede l’embargo sulle armi destinate al Tatmadaw: l’unico voto contrario è arrivato della Bielorussia, con l’astensione di 36 paesi, tra i quali Russia e Cina, i maggiori fornitori di armamenti, e diversi paesi del Sud-Est asiatico (Thailandia, Cambogia, Laos). Un passo più di forma che di sostanza: al punto che l’ambasciatore del Myanmar presso l’Onu, Kyaw Moe Tun, dichiaratamente contrario al golpe militare e di fatto rappresentante del governo in esilio, l’ha definita una risoluzione “tardiva e annacquata”. Anche l’Unione Europea ha imposto nuove sanzioni contro i funzionari della giunta militare e le aziende a loro collegate, per tentare di bloccare il flusso dei finanziamenti, ma gli attivisti di Justice for Myanmar chiedono che siano colpite dalle sanzioni anche le compagnie petrolifere (Myanmar Oil and Gas Enterprise) e le banche controllate dalla giunta militare. Mentre finora non ha dato frutti la richiesta internazionale di mediazione da parte dell’ASEAN (l'associazione regionale del sud-est asiatico, composta da 10 stati): nonostante la forte presa di posizione di Indonesia, Malesia e Singapore, continua a prevalere la linea della “non interferenza”. Per dire del clima che si respira: a Mandalay un gruppo di manifestanti pro-democrazia ha dato fuoco alle bandiere dell’ASEAN, per rimarcare l’inutilità dei suoi sforzi diplomatici. 

La mossa dei militari: scarcerati i prigionieri politici

Diplomazia bloccata, scontri armati in strada, in un paese senza più regole, sempre più isolato, in condizioni economiche e sanitarie difficilissime, con una nuova ondata di contagi in corso e un sistema ospedaliero non più in grado di garantire la necessaria assistenza. La giunta militare, forse nel tentativo di calmare la ribellione, ha appena disposto la scarcerazione di 2300 prigionieri politici, compresi i giornalisti che erano stati arrestati con l’accusa di aver raccontato le proteste contro il Tatmadaw. L’agenzia di stampa cinese Xinhua riporta una dichiarazione di Maj-Gen Zaw Min Tun, vice ministro dell'Informazione: «I prigionieri rilasciati hanno preso parte alle proteste, ma non alle violenze. Non hanno commesso crimini e non hanno guidato le rivolte». L’Associated Press riporta la dichiarazione di Tun Kyi, un membro anziano della Società degli ex prigionieri politici, che ha accusato il regime di aver rilasciato i detenuti soltanto per ridurre la pressione della comunità internazionale: «I militari hanno rapito i dissidenti e li hanno presi in ostaggio. Non è un rilascio incondizionato di tutti i leader politici e prigionieri. E non c'è motivo di essere grati». Poche ore prima erano state fatte cadere le accuse a carico di 24 prigionieri “eccellenti” (attori, influencer) accusati di aver partecipato alle manifestazioni contro il golpe. 

Tra coloro che restano detenuti (anche se ai domiciliari) c’è, naturalmente, Aung San Suu Kyi, che nel governo legittimo ricopriva l’incarico di Consigliere di Stato e che pochi giorni fa ha compiuto 76 anni (e i suoi sostenitori hanno sfilato a Yangon indossando un fiore tra i capelli, com’è solita fare la leader della National League for Democracy, formazione ormai sciolta per decreto della giunta militare. E’ la quindicesima volta che il premio Nobel per la pace (nel 1991), indiscutibile simbolo dell’opposizione ai regimi militari del Myanmar, nonostante le accuse di complicità nel genocidio dei Rohingya (e comunque con l’ombra minacciosa di non aver mai accolto le istanze delle varie etnie), trascorre il suo compleanno in stato di arresto. Deve difendersi da sei capi di accusa: corruzione (pena massima 15 anni), violazione della legge sui segreti di stato (14 anni), importazione illegale di walkie-talkie (3 anni) e violazione della legge sulle telecomunicazioni (1 anno), incitamento a disordini pubblici (3 anni), oltre a due accuse per disastri naturali (3 anni ciascuna). La prima udienza si è tenuta lo scorso 14 giugno a Naypyidaw, la capitale birmana: una qualsiasi condanna le impedirebbe qualsiasi futura possibilità di candidatura. Attraverso il suo avvocato, Suu Kyi ha invitato il suo popolo “a rimanere unito”. Il comandante delle forze armate del Myanmar, Min Aung Hline, ha dichiarato che il destino di Aung San Suu Kyi «sarà deciso in tribunale nel rispetto della legge».

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