SOCIETÀ
Combattere, vivere e raccontare: la Resistenza fu (anche) una guerra

Una sfilata partigiana nel Nord Italia. Foto: Archivio Angelo Palma/A3/Contrasto
La Resistenza non è stata soltanto una “bella storia”, da celebrare una volta all’anno con retorica unitaria e patriottica. È stata anche e soprattutto una guerra: dura, irregolare, a volte sporca; scelta minoritaria e lacerante piuttosto che moto corale di popolo. È da qui che parte il poderoso volume Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), curato da due autorevoli storici come Filippo Focardi e Santo Peli, entrambi dell’Università di Padova, e pubblicato da Carocci nella collana “Frecce”. Un'opera di oltre 400 pagine articolata in tre sezioni – “Combattere”, “Vivere” e “Raccontare” – per sedici saggi firmati da alcuni tra i maggiori specialisti della storia resistenziale.
L’obiettivo è chiaro: riportare al centro non solo del dibattito scientifico, ma anche della narrazione pubblica, la guerra partigiana nella sua concretezza, fatta di scelte estreme, sete di giustizia e talvolta di vendetta, improvvisazione, solidarietà e gerarchie da reinventare. Una dimensione che, soprattutto negli ultimi decenni, è stata sempre più eclissata a beneficio di versioni rassicuranti della Resistenza come fenomeno civile, non violento, addirittura “condiviso”. Ma, come ricordano Focardi e Peli, senza un pur esiguo esercito di volontari disposti a combattere, morire ma anche uccidere, la discontinuità rappresentata dal 25 aprile non avrebbe mai preso forma.
Il volume è dunque innanzitutto diretto ad aggiornare la storia militare della Resistenza, per troppo tempo considerata secondaria rispetto a quella politica e sociale. Il saggio di apertura di Luca Baldissara, dedicato alla guerra partigiana in senso stretto, rilegge l’esperienza della lotta armata attraverso le sue specificità: una “guerra per bande” che fu anche “scuola politica”, campo di selezione, laboratorio di comando. Non una parentesi folcloristica ma una vera esperienza bellica, come suggerisce la sezione “Combattere”, che accoglie contributi anche su temi finora poco approfonditi: la presenza di partigiani stranieri, il ruolo del Sud, i rapporti con l’esercito regolaree la partecipazione femminile, magistralmente raccontata da Maria Teresa Sega.
Tra gli autori dei saggi figura anche Amedeo Osti Guerrazzi, tra i massimi esperti della Repubblica Sociale Italiana, che ha appena pubblicato un importante studio monografico sullo stesso tema (L’ultima guerra del fascismo. Storia della Repubblica Sociale Italiana, Carocci 2024), nel quale ricostruisce con rigore la dimensione militare, politica e ideologica della RSI, mostrando come la guerra civile del 1943-1945 fu combattuta anche da un fascismo “rinnovato” che tentò di darsi una nuova legittimità, inasprendo però la repressione e rafforzando il legame con il nazismo. L’opera dialoga idealmente con il saggio che lo studioso firma all’interno del volume curato da Focardi e Peli, offrendo un quadro a tutto tondo del conflitto che lacerò l’Italia.
Lontano da ogni retorica, Resistenza restituisce anche il carattere contraddittorio della lotta armata, segnata da improvvisazione e disciplina, eroismo e fatica, violenza e compassione. In questo senso, il saggio di Chiara Colombini sul vissuto dei partigiani offre un affondo emotivo, mostrando che l’esperienza resistenziale fu anche scuola di umanità e al contempo conflitto interiore, tra esigenza di seguire la propria coscienza a posto e i dubbi e le esitazioni che spesso annebbiavano le volontà più ferree.
La seconda parte del volume – “Vivere” – mette infatti in luce le condizioni materiali e psicologiche della guerra partigiana. Francesco Fusi ricostruisce la dimensione quotidiana della sopravvivenza tra fame, malattie, freddo e improvvisazione logistica, mentre Bruno Maida racconta l’esperienza dei Convitti della Rinascita, vere e proprie scuole democratiche nate nell’immediato dopoguerra per accogliere i figli dei combattenti. Giovanni Taurasi indaga invece le radici della lotta risalendo all’antifascismo clandestino, all’esperienza del carcere e alla memoria della repressione.

Sorprende poi il saggio di Santo Peli sul rifiuto della guerra: non tutti i partigiani erano “guerrieri per vocazione”, anzi. Molti si gettarono nella lotta armata per sfuggire a un’altra guerra – quella fascista e nazista – nella speranza di una pace futura. Una contraddizione che rende la loro scelta ancora più drammatica, e umana.
La terza parte del volume, “Raccontare”, affronta il tema cruciale della costruzione della memoria. Dai manuali scolastici alla narrativa, dal cinema alla storiografia, la Resistenza è stata raccontata in molti modi, spesso tra retorica e oblio, semplificazione e revisionismo. Gabriele Pedullà riflette sulla letteratura resistenziale, tra neorealismo e postmodernismo; Mirco Carrattieri affronta invece il tema scivoloso della violenza partigiana, tra verità storiografiche e usi politici della memoria, e Andrea Tappi mostra come i manuali scolastici abbiano tradito la complessità della guerra partigiana, riducendola a racconto epico o, peggio ancora, vago sentimentalismo.
Il saggio conclusivo di Focardi e Alessandro Santagata chiude il cerchio analizzando le trasformazioni della memoria pubblica, dalla retorica dell’eroismo ai conflitti della “guerra delle memorie”, fino al recente paradigma vittimario, che spesso equipara la violenza dei partigiani a quella dei fascisti alimentando una falsa simmetria. Resistenza invita a guardare in faccia la guerra partigiana senza le lenti deformanti della mitizzazione o della demonizzazione: in un tempo in cui questa parola viene banalizzata, strumentalizzata o dimenticata, tornare al cuore della sua esperienza armata, con i suoi valori, costi e contraddizioni, ha il gusto schietto del rigore e del senso di responsabilità, scientifica e civile.
Come scrivono i curatori, non basta parlare ogni tanto di “valori resistenziali” nelle cerimonie: è piuttosto necessario tornare, per citare Nuto Revelli, “al partigianato così com’era, non come vorremmo fosse stato” – tanto più oggi, di fronte a un mondo che sembra dimenticare e talvolta calpestare quell’esperienza e la sua lezione. Concetto ribadito a più voci durante la presentazione padovana del volume, durante la quale si sono alternati interventi densi e appassionati, che hanno mostrato quanto il libro tocchi un punto decisivo e per certi versi un nervo ancora scoperto della storia nazionale.
Giulia Albanese, docente dell’Università di Padova e vicepresidente dell’Istituto nazionale Parri, ha ad esempio parlato di “un libro importante, che più che chiudere una stagione ne apre una nuova”, sottolineando il contributo della rete degli istituti resistenziali a una ricerca viva e rigorosa. La storica ha elogiato la centralità restituita alla guerra partigiana come fenomeno storico reale: “è la resistenza armata ad aver liberato l’Italia, è con questo che dobbiamo fare i conti”. Albanese ha anche rilevato come il volume riporti al centro la figura del combattente, senza dimenticare la varietà di motivazioni e di condizioni di chi diede il proprio contributo.
Lo storico dell’Università di Pisa Gianluca Fulvetti ha invece parlato della necessità di un “ritorno al 25 aprile”, auspicando il superamento di una torsione semplificatrice dove l’ampliamento del campo resistenziale (resistenza civile, staffette, solidarietà) ha finito per oscurare il cuore del conflitto. Paolo Corsini, presidente dell’Istituto Parri e già sindaco e parlamentare, ha ricordato che “resistere non fu solo un atto politico o militare, ma anche una condizione esistenziale” e ha definito il volume “un’opera che non concede autoassoluzioni” e che rompe con la “lettura miracolistica” della Resistenza, ancora dominante nei discorsi pubblici.
Raccontare la Resistenza com’era non significa negarne il valore, ma anzi restituirle oltre al suo valore storico tutta la sua forza, compresa la capacità di essere una chiave per leggere il presente. Tra chi – persino nel democratico Occidente – promette leggi marziali e tenta di riscrivere il passato, quell’esperienza ci sfida a non cedere alla nostalgia o all’indifferenza. Perché la storia non è finita e anche oggi, da qualche parte, si combatte per la libertà.
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