SOCIETÀ

Come cantare la Resistenza: gli Stormy Six e il 25 aprile 1975

Come mantenere viva la memoria della Resistenza? L’interrogativo torna ciclicamente a ogni 25 aprile. E diventa sempre più pressante mano a mano che i testimoni diretti della lotta contro il nazifascismo in Italia scompaiono. Ma non è una domanda nuova, perché già circolava cinquant’anni fa in un’Italia in cui il ricordo della Seconda Guerra mondiale era ancora vivo, ma il contesto politico e culturale era molto diverso da quello attuale. Un disco pubblicato nel 1975 e, soprattutto, la prima canzone della scaletta possono aiutare oggi a capire come è stato vissuto allora l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo in Italia e riflettere sul nostro presente. Il disco si intitola Un biglietto del tram registrato dalla band milanese Stormy Six e la canzone è Stalingrado. A guidarci in questo percorso è Alberto Gagliardo, docente di storia distaccato presso gli Istituti di Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Forlì-Cesena e Rimini e autore del libro Come l’acciaio resiste la città. Viaggio nella liberazione con gli Stormy Six (Derive Approdi, 2025).

Un anno cruciale

Scrivendo un libro sulla storia degli anni Settanta del Novecento, Miguel Gotor li ha definiti come “il decennio più lungo del secolo breve”. A fare da spartiacque a metà di quel periodo, il 1975, l’anno in cui è uscito Un biglietto del tram, non è un anno qualunque per la storia italiana. Per esempio, il 15 giugno ci furono le prime elezioni amministrative in cui votò anche chi aveva 18 anni, perché una nuova legge aveva stabilito che non si diventava più maggiorenni a 21 anni. Qualche mese prima, il 5 febbraio, una delegazione capeggiata da Marco Pannella del Partito Radicale aveva presentato la richiesta di un referendum abrogativo per eliminare il reato d’aborto dalla legislazione italiana e il 31 maggio era stato approvato l’abbassamento della durata della leva militare obbligatoria da 24 a 12 mesi.

Allargando lo sguardo dalla sfera politica a quella artistica, il 1975 potrebbe essere definito un anno d’oro. Escono film importantissimi, come Amarcord di Federico FelliniC’eravamo tanto amati di Ettore Scola e Profondo rosso di Dario Argento; libri che hanno segnato un’epoca e oltre, come Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli, mentre il premio Nobel per la letteratura viene conferito a Eugenio Montale. Nella musica l’elenco è quasi imbarazzante: Banco del Banco del Mutuo Soccorso, M.elle le “Gladiator” di Franco BattiatoIo che non sono l’imperatore di Eugenio BennatoYuppi du di Adriano CelentanoAnidride solforosa di Lucio DallaVolume 8 di Fabrizio de Andrè e molti altri. 

In questo contesto, gli Stormy Six sono una formazione irrequieta, in profondo cambiamento. La band si è formata a Milano nel 1966, ma solo nel 1973 si stabilizzano nella formazione a sei che poi inciderà Un biglietto. “Nascevano come una band beat,” spiega Alberto Gagliardo, “adottavano cioè le sonorità di tendenza in quell’epoca: i testi non erano un aspetto fondamentale e anche dal punto di vista musicale siamo di fronte a una ricerca abbastanza semplice e banale”. Sono brani spensierati, pensati per la diffusione di massa nelle radio. Ma mentre la band cerca di costruirsi una visibilità e una carriera, Milano viene investita dal ’68 e dalle proteste studentesche che innescano irrequietezze politiche e artistiche nuove. 

Gli anni di piombo

Per molti giovani del Nord Italia, l’evento dirompente è la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. La città di Milano ne esce stravolta e per molti giovani funziona come una miccia che porta definitivamente all’incendio politico che sono stati gli anni Settanta. L’attentato realizzato dalla formazione di estrema destra Ordine Nuovo è uno dei momenti più tesi della cosiddetta “strategia della tensione”. “In questa prima fase”, precisa Gagliardo, “gli attentati e le azioni criminali sono portate avanti dalle formazioni neofasciste e della destra extraparlamentare, almeno fino al 1974”. Si tratta di una fase tumultuosa, che semina il panico nella popolazione e mette sotto pressione le forze politiche e i partiti tradizionali: “la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista e il Partito Socialista hanno bisogno di fare fronte in qualche modo rispetto all’attacco che arriva” dalle organizzazione della destra estrema.

Fuori dal perimetro parlamentare, però, il clima è ancora più rovente. Nella prima metà dei Settanta gli attentati avevano contribuito concretamente a far nascere l’idea che il pericolo di un ritorno di uno stato fascista fosse concreto. In questo contesto, gli Stormy Six sviluppano una linea politica che li allontana definitivamente dalla musica di puro intrattenimento, come il beat, e li porta ad avvicinarsi alle posizioni radicali di sinistra. Un posizionamento politico che li colloca vicino a quella parte dei movimenti di sinistra ancora convinti, in vari modi, che la rivoluzione comunista era ancora possibile. Anzi, era quasi a portata di mano, vedendo l’avanzata del Partito Comunista durante la segreteria di Enrico Berlinguer.

Riprendersi la Resistenza

L’idea semplice, ma geniale, di Stalingrado (la canzone simbolo del disco degli Stormy Six cantata alle manifestazioni per tutti gli anni successivi) è costruire un parallelo tra la resistenza della città di Stalingrado durante la Seconda Guerra mondiale e la situazione attuale. “Il messaggio simbolico potente”, spiega Gagliardo, “è l’immagine per cui ogni città italiana di fronte alla violenza stragista neofascista si sarebbe trasformata in una nuova Stalingrado”. In questa operazione, la canzone non è solo una vigorosa metafora, ma una ricontestualizzazione della Resistenza partigiana che la riattualizza al 1975 e alla sensibilità della gioventù di sinistra che si trova a vivere un confronto violentissimo e decisivo per il futuro del Paese.

Ma non è solo la sinistra, radicale e non, a rispolverare il mito della Resistenza. L’idea che in quegli anni si stesse combattendo una battaglia ideologica con il serio pericolo che movimenti neofascisti potessero concretamente tentare di prendere il potere con la forza. Lo testimoniano i tentativi di golpe e gli attentati anche alle più importanti personalità. “Berlinguer stesso era stato vittima di un attentato nel ritorno da un viaggio in Cecoslovacchia”, racconta Gagliardo. Aveva capito quale fosse il reale pericolo per la democrazia in Italia, “e quindi riteneva che l’avvicinamento alla Democrazia Cristiana - giusto o sbagliato - fosse una scelta politica legittima”. L’accordo tra PCI e DC andrà sotto il nome di “compromesso storico” ed è stata una scelta che una parte della sinistra radicale, soprattutto giovane, non accettava.

Una musica popolare

Sotto il profilo dello stile, Stalingrado interpreta alla perfezione il senso del fare musica per la gioventù di sinistra di allora. Come già era avvenuto negli anni Sessanta, con l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano di Roberto Leydi e soci (di cui abbiamo parlato a proposito di Bella ciao) si stabilisce un legame fondamentale con la musica popolare, nel senso di quella che affonda le proprie radici nel folk. In fondo, è la traiettoria che ha caratterizzato anche la musica americana, quella che da Woody Guthrie e Pete Seeger fino a Bob Dylan porta ribellione antagonista e innovazione musicale ad agglutinarsi attorno alle proteste per la guerra del Vietnam e le lotte per i diritti civili.

La canzone è un'immagine potente: ogni città italiana di fronte alla violenza stragista neofascista si sarebbe trasformata in una nuova Stalingrado Alberto Gagliardo

Il testo firmato da Umberto Fiori è apparentemente semplice ma, come scrive Gagliardo, caratterizzato da “un attacco formidabile, con le forti simmetrie espresse dai due versi iniziali”. Ma a rendere straordinaria l’efficacia del brano nel suo complesso sono “l’ambientazione urbana, da cui deriverà la rilevanza data alla Resistenza dei Gap più che a quella delle Brigate partigiane di montagna”. Stalingrado si presenta quindi come un brano figlio di una personale interpretazione del mito della Liberazione, ma con la forza atmosferica di sapersi calare direttamente nella realtà di lotta prevalentemente cittadina del decennio dei Settanta. 

L’eredità

La relativa semplicità della canzone permette rapidamente a Stalingrado di diventare uno dei brani che si sentono intonare durante le manifestazioni degli anni Settanta e anche nel decennio successivo. Accade nonostante la canzone non venga trasmessa dalla radio RAI, perché “i passaggi politici espliciti non le permettono di passare l’esame della Commissione d’ascolto dell’emittente nazionale”, precisa Gagliardo. Per fortuna ci sono le prime radio libere, come Radio Milano Libera (1975), Radio Popolare (1976), Radio Alice (1976) a Bologna, e molte altre che sono un altro elemento fondamentale della controcultura di quel periodo. 

Almeno inizialmente, la notorietà della canzone passa soprattutto per le Feste dell’Unità, i concerti organizzati dai sindacati e dai movimenti di sinistra, o dalla circolazione su disco e con il passaparola. Si tratta di una distribuzione “alternativa”, perché quando la casa discografica dei primi dischi degli Stormy Six, la Decca, sente il materiale così politico e schierato, li lascia andare. Nasce così un’esperienza, quella della Cooperativa L’Orchestra, che oltre ai Stormy Six pubblica anche dischi di gruppi folk come gli Yu Kung, di un grande percussionista come Andrea Centazzo, ma anche un gruppo centrale della scena progressive inglese come gli Henry Cow del chitarrista inglese Fred Frith

Gli Stormy Six hanno continuato a fare musica con la formazione a sei di Un biglietto fino al 1983. Lasceranno però progressivamente la canzone politica e folk per avvicinarsi sempre di più al progressive, un’influenza che si può già sentire in filigrana nel disco del 1975. Stalingrado, però, può ancora oggi illuminare quel periodo irrequieto e forse irripetibile, sia sul fronte dello scontro politico, sia sotto il profilo della straordinaria produzione musicale e culturale. Come scrive Gagliardo nel suo libro, però, non si tratta solamente di tornare ad ascoltare un brano-capolavoro che ha perso popolarità tra le generazioni successive. Ma si tratta proprio di usarlo come lente per guardare nuovamente al passato, perché “occorre ridare un futuro al passato, prendere fiato, e intonare nuove canzoni o intonare le antiche in maniera nuova”.

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012