Violenza di genere. Una campagna per chiedere dati aggiornati, completi e accessibili
Ogni anno, il 25 novembre – la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne – si apre con la stessa, amara constatazione: nel nostro Paese si verifica un femminicidio ogni 72 ore. Ogni tre giorni una donna viene uccisa in quanto donna solitamente dal proprio partner, da un ex compagno o da un familiare.
Ma cos’altro sappiamo delle persone vittime di questo crimine? E su quelle che subiscono altre forme di violenza di genere? In quali contesti è più probabile che si verifichi la violenza e in quale misura alcune donne (quelle più anziane, le sex worker, le donne trans e quelle con disabilità, ad esempio) corrono un rischio maggiore di subire questo tipo di abusi? E qual è l’efficacia dimostrata dalle attuali misure preventive (come il braccialetto elettronico)?
Sebbene diverse associazioni e lavori di ricerca abbiano cercato di quantificare queste e altre dimensioni della violenza di genere, le esperte di analisi dei dati e le organizzazioni femministe denunciano da tempo la mancanza di dati ufficiali, completi e accessibili che monitorino in modo approfondito la violenza di genere e le sue dimensioni nel nostro Paese.
Per questo motivo, la campagna DatiBeneComune (sostenuta, dal 2020, anche da Il Bo Live), la rete D.I.Re. e l’associazione Period Think Tank hanno lanciato la petizione #dativiolenzadigenere per chiedere al Governo di pubblicare dati completi, aggiornati e accessibili sulla violenza di genere. L’iniziativa è promossa anche da ActionAid, Trasparency international e OnData.
“Il nostro obiettivo è quello di interloquire con il Ministero dell'Interno per ragionare assieme su quali dati sarebbe importante raccogliere per avere una mappatura dei femminicidi non soltanto quantitativa, ma capace di mostrare anche quali sono le situazioni in cui è più probabile che si manifesti questo tipo di violenza”, racconta a Il Bo Live Valentina Bazzarin, ricercatrice indipendente in etica dei dati e dati di genere e co-fondatrice di Period Think Tank. “Tali dati dovrebbero essere inoltre comparabili a quelli raccolti a livello internazionale e aggiornati di frequente”.
Infatti, i report trimestrali del Ministero dell’Interno restituiscono un quadro alquanto parziale: non riportano informazioni essenziali come età, la provenienza e il profilo della vittima e dell’aggressore. Mancano i dettagli sulle forme di abuso che hanno preceduto il femminicidio, sulla natura dei rapporti di potere tra le persone coinvolte e sulla presenza di eventuali misure preventive già in atto (denunce alle forze dell’ordine, ad esempio, o l’obbligo di indossare il braccialetto elettronico). Inoltre, il report non presenta i dati disaggregati, indispensabili per comprendere differenze territoriali, socio-economiche e demografiche.
Contare conta, ma non è tutto
Come sottolinea Bazzarin, “bisogna essere contate per poter contate. Non basta, però, aggiornare sul numero di reati commessi ogni anno e sul loro aumento nel corso del tempo, che è la principale informazione diffusa dai report trimestrali e, di conseguenza, dalla maggior parte dei media tradizionali.
Misurare, infatti, ci interessa non solo per descrivere il fenomeno ma, soprattutto, per valutare il successo e l'impatto delle politiche di prevenzione attraverso l'uso dei dati. È fondamentale, quindi, monitorare tutte le diverse forme della violenza, della discriminazione e della manipolazione dell'informazione che riguardano le donne e i reati di genere in un’ottica intersezionale (che permetta di cogliere come fattori diversi, tra cui età, origine, condizione socio-economica, identità ed orientamento sessuale, si intersechino nel determinare livelli differenti di rischio e vulnerabilità, ndr) per aiutare i decisori politici e le forze dell'ordine ad attuare strategie più mirate per il contrasto di questa violenza sistemica”.
L’iceberg della violenza
Si tratta di una tesi sostenuta anche da Donata Columbro, che nel suo libro Perché contare i femminicidi è un atto politico (Feltrinelli, 2025) argomenta che la diffusione di dati completi e disaggregati sulla violenza di genere non serve soltanto a produrre statistiche ma anche, soprattutto, a portare alla luce ciò che spesso resta nascosto sotto l’“iceberg della violenza” di genere, ovvero la sua natura sistemica e strutturale.
I femminicidi e le altre forme di violenza di genere non rappresentano, infatti, singoli “tragici episodi” indipendenti l’uno dall’altro, ma le manifestazioni di un problema culturale, strutturale e fortemente radicato a livello sociale.
Lo spiegano con chiarezza le parole dell’attivista femminista bell hooks (che si firmava volutamente con le iniziali minuscole) quando scriveva: “il patriarcato è un sistema politico-sociale secondo il quale gli uomini sono per loro natura dominanti, superiori a tutti quelli che ritengono deboli, in particolare alle donne, e hanno diritto di guidarli e governarli e di mantenere quel predominio attraverso varie forme di terrorismo e violenza psicologici”.
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“Perché i dati sulla violenza di genere siano davvero “dati di qualità”, dovrebbero riflettere anche i rapporti di potere (economico, di status sociale, ma non solo) in cui si trovano le donne e le altre soggettività coinvolte”, afferma Bazzarin. “I dati devono permettere, in altre parole, il riconoscimento delle varie forme di assoggettamento all’interno delle dinamiche sociali e relazionali”.
Bazzarin si riferisce a forme di controllo e abuso riconducibili, ad esempio, alla violenza economica, oltre che a quella psicologica, sessuale o digitale. “Si tratta di varie forme di squilibrio di potere che nella maggior parte dei casi precedono la violenza fisica e che, a prescindere da questo, erodono i diritti delle persone nel quotidiano”, spiega. “Perciò, tenere conto di queste situazioni nel processo di raccolta dati può mettere in luce la natura sistemica della violenza di genere, aiutare a riconoscere meglio le situazioni “a rischio” e, di conseguenza, progettare misure adeguate per intervenire prima che la violenza degeneri”.
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Il femminismo dei dati
L’attenzione alla dimensione del potere è al centro di un approccio teorico chiamato femminismo dei dati che, come spiega Bazzarin, prevede che il processo di raccolta dati soddisfi requisiti quali la trasparenza, l’interdisciplinarietà e, soprattutto, l’intersezionalità.
“Il femminismo dei dati non si basa solo sulla necessità di contare, ma anche sulla comprensione di chi e cosa bisogna contare”, prosegue la ricercatrice. “Il processo di raccolta dati, infatti, non è mai neutro. Quando si raccoglie e si presenta un dato bisogna sempre interrogarsi su quali persone o gruppi trarranno vantaggio dalla sua analisi e chi no, per evitare che alcune soggettività ed esperienze (tra cui, ad esempio, quelle delle donne non bianche, queer e con disabilità, ndr) vengano escluse o discriminate.
Per riuscirci bisogna instaurare innanzitutto la collaborazione tra esperti ed esperte con competenze diverse, includendo, ad esempio, persone che si occupano di statistica e studiose di narrativa femminista.
Ma non solo. È anche necessario che le linee guida per la raccolta dati non vengano stabilite solo da un ristretto gruppo di professionisti, per quanto interdisciplinare; vanno coinvolte, attraverso percorsi partecipativi e a bassa soglia di accessibilità, tutte le soggettività che sono rappresentate poco o male (o affatto rappresentate) nei dati attualmente a disposizione, a prescindere dal titolo di studio, della posizione socioeconomica, dell’età e del background migratorio.
Non si tratta di un’impresa semplice, naturalmente. Per intraprendere dei percorsi di femminismo dei dati con un approccio intersezionale bisogna mettere in discussione la propria posizione di privilegio e aprirsi anche ai punti di vista, alle esperienze e alle richieste di ascolto provenienti dal cosiddetto pubblico “non esperto”.
È fondamentale, infine, che i dati sulla violenza di genere e i criteri in base ai quali sono stati ottenuti siano diffusi con la massima trasparenza e vengano resi facilmente accessibili a tutti i cittadini e le cittadine, in modo tale che ogni persona possa capire davvero la portata del fenomeno, riconoscere le sue radici strutturali e partecipare con maggiore consapevolezza al dibattito pubblico e alla richiesta di politiche più efficaci”.
Maggiori informazioni sulla campagna #dativiolenzadigenere sono disponibili qui.