SOCIETÀ
I dimenticati della Resistenza: i GAP a Padova tra eroismo e oblio

Elaborazione grafica da Tono Zancanaro, "Il 25 aprile alle Officine Meccaniche Stanga", litografia (part.)
I Gruppi di Azione Patriottica (GAP) rappresentano l’altra faccia della Resistenza: quella che non si combatte sui monti ma nelle città, tra le case e sulle strade. Nati per impulso diretto del Partito Comunista Italiano ancora prima dell’8 settembre 1943, i GAP hanno compiti rischiosi e radicali come le cosiddette “azioni sull’uomo”, ovvero le eliminazioni mirate di ufficiali nazisti, gerarchi fascisti, spie e collaborazionisti.
Proprio per questa natura violenta del loro operato, ideologicamente marcata e poco conciliabile con una narrazione pacificata del dopoguerra, la loro memoria è stata a lungo rimossa, deformata o persino criminalizzata. Oggi, a tentare di restituire voce e dignità a quei combattenti è Alessandro Naccarato con il libro Storie di eroi dimenticati. I Gruppi di Azione Patriottica a Padova (Il Prato, 2024).
L’autore – storico e docente di scuola superiore con una lunga storia di impegno politico a sinistra – elegge come campo di indagine Padova, città definita da Angelo Ventura “l’unica del Veneto in cui si sviluppa intensa la guerriglia urbana”. Qui, nel giugno del 1944, nasce una Brigata Garibaldi che conta tra le sue fila una quarantina di gappisti: pochi uomini, capaci però di compiere oltre trenta azioni letali contro l’apparato nazifascista in meno di sei mesi. Operazioni clamorose, come la liberazione del comandante Giovanni Zerbetto o l’assalto al carcere di via Paolotti, culminato con la fuga di 22 partigiane, rendono Padova un crocevia cruciale della lotta resistenziale, dando luogo all’invio in città della famigerata banda Carità, responsabile di torture e violenze.

Eppure per molti di quei combattenti la Liberazione non porta riconoscimenti. Al contrario, diversi vengono processati come criminali comuni nel quadro del cosiddetto processo alla Resistenza, espressione recentemente ripresa da Michela Ponzani nel suo saggio del 2023. Ed è proprio da due di questi procedimenti, rintracciati da Naccarato nell’Archivio di Stato di Padova, che prende avvio il libro: i casi ruotano attorno a gappisti accusati di omicidio e altri reati in processi che si basano anche su testimonianze di ex fascisti e informative raccolte soprattutto dai carabinieri, basate secondo Naccarato su pregiudizi anticomunisti e anti resistenziali. “Si tratta di una vera e propria un’inversione paradossale dei ruoli – spiega l’autore a Il Bo Live –: i carnefici diventano vittime, i resistenti colpevoli”.
Così ad esempio Beniamino Dainese, assolto in primo grado per insufficienza di prove, si troverà condannato in appello e Cassazione a una pena severa, senza poter contare su indulti e amnistie. “I giudici di secondo e terzo grado erano spesso più anziani, formati nella cultura giuridica del regime”, nota l’autore. La continuità nelle istituzioni, in particolare nella magistratura, contribuisce a una rilettura retroattiva della lotta armata, trasfigurata da atto di resistenza in delitto.
Un fenomeno tutt’altro che isolato: in tutta Italia dopo il 1945 molti ex partigiani, in particolare quelli legati alla sinistra comunista (ma non solo, come dimostra la vicenda di Adolfo Zamboni), si trovano marginalizzati o perseguiti mentre la nuova Repubblica, anche se nata dall’antifascismo, cerca un equilibrio tra memoria, pacificazione e ordine istituzionale. La debole epurazione dei quadri fascisti e il reinserimento di molte figure compromesse nelle nuove strutture statali rendono impossibile un riconoscimento pieno del ruolo dei resistenti più radicali, mentre l’antifascismo istituzionale lascia poco spazio a chi come i gappisti ha praticato, spinto da una visione rivoluzionaria, una lotta senza mediazioni.
Matteo Millan, docente di storia contemporanea presso l’Università di Padova, riconosce diversi pregi al volume di Naccarato: “A parte la solida ricostruzione della guerriglia urbana, studiata diversi anni fa a livello nazionale da Santo Peli, è particolarmente interessante la sezione che ricostruisce le vicende giudiziarie del dopoguerra, sottolineando l’emarginazione di molti ex combattenti”. L’uso di fonti rare o inedite conferisce al libro un valore documentario decisivo, capace di restituire il clima politico e giudiziario della transizione post-bellica.
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Sul tema della ‘Resistenza tradita’ Millan invita però alla cautela: “È comprensibile che i gappisti si sentano sentiti abbandonati, ma bisogna considerare il più ampio contesto della transizione democratica. Lo stesso PCI a Padova prende le distanze da alcuni di loro; un modo per chiudere una fase e aprirne una nuova: del resto nei processi di normalizzazione la delusione dei rivoluzionari è quasi inevitabile”.
In questo quadro, il lavoro di Naccarato – che continua a coordinare diverse iniziative come la recente mostra Sguardi resistenti, che ha coinvolto diversi studenti dell’Istituto ‘Giovanni Valle’ di Padova – resta comunque, oltre che un’operazione storiografica, un invito a riconsiderare il peso e la complessità della memoria pubblica. Ogni società, nel costruire la propria identità, seleziona cosa ricordare e cosa dimenticare: lasciare ai margini chi ha combattuto per la libertà collettiva rischia però di indebolire, secondo l’autore, la radice democratica del presente. La memoria non può essere selettiva né funzionale alle convenienze del momento, ma deve includere anche le pagine scomode, le storie controverse, i protagonisti che non rientrano nei canoni della retorica celebrativa.
A ottant’anni dalla Liberazione, il lavoro di ricerca storica è comunque tutt’altro che concluso. “Ci sono ancora archivi da esplorare, fondi da inventariare, storie da raccontare – conclude Naccarato –. Solo così potremo continuare a capire davvero la Resistenza e sottrarre all’oblio chi ha pagato il prezzo più alto per la nostra libertà”.
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