SOCIETÀ

Mario Todesco, il martire mite

I primi padovani che all’alba del 29 giugno 1944 passarono davanti al “Bar Borsa” in via Emanuele Filiberto inorridirono nel vedere a terra un cadavere insanguinato e col volto sfigurato. A identificarlo all’obitorio fu don Giovanni Nervo, che riconobbe l’amico Mario Todesco, insegnante al liceo “Tito Livio”, incaricato del corso di lingua italiana per studenti stranieri all’università di Padova e assistente alla cattedra di lingue e letterature slave.

Mario Todesco nacque nel 1908 a Solagna, alle falde occidentali del Monte Grappa, dove la famiglia, profondamente cattolica, aveva una malga in località Colli Alti. Laureato in Lettere a Padova nel 1931 col massimo dei voti e la lode, iniziò la carriera d’insegnante di materie letterarie alle magistrali di Padova. Nel 1937 passò al liceo classico “Marco Foscarini” di Venezia e nel 1942 al “Tito Livio” di Padova.

Nel luglio del 1942 partecipò alla formazione del Partito d’Azione, che ebbe uno dei principali centri di dibattito e diffusione nell’Istituto di Filosofia del diritto, diretto da Norberto Bobbio. Al Partito d’Azione aderiva anche il prof. Adolfo Zamboni, che, conoscendo Mario Todesco fin dall’adolescenza, aveva intuito da tempo la sua insofferenza per il giogo fascista. Perciò fu per lui una lieta conferma quando a una riunione in un sotterraneo dell’università trovò anche Mario, che chiamò al suo fianco come collaboratore per formare i primi nuclei della lotta cospirativa.

Dopo l’8 settembre 1943, dissoltosi l’esercito dopo la fuga del re, iniziò la ferrea occupazione nazista che sfruttava i servigi del neofascismo repubblicano di Salò.  Mario Todesco e il cugino Lodovico, laureando in Medicina, parteciparono alla prima riunione, tenuta a casa Zamboni, per l’organizzazione militare del Comitato di Liberazione Nazionale di Padova, epicentro della Resistenza veneta.

Il giovane patriota cominciò subito la sua rischiosissima attività. Sfidando il coprifuoco faceva scivolare nelle cassette postali dei padovani i manifestini di propaganda antifascista. Per armare i giovani partigiani radunati sul Grappa dal cugino trasportava in montagna, con l’aiuto di coraggiose staffette in bicicletta, le armi e le munizioni strappate al nemico e nascoste da Angelo Zamboni nei sotterranei della fabbrica padovana “Zedapa” con la complicità del prof. Vittorio Scimone. Aiuto di Clinica Medica, Scimone amministrava la grande azienda in assenza del cognato Giorgio Diena, esule in Svizzera per motivi razziali e poi deportato a Dachau per le sue attività nella Resistenza coi professori Marchesi, Franceschini e Meneghetti.

Mario Todesco fu tra i primi ad aiutare, con suo grave pericolo, gli ebrei perseguitati e i soldati britannici fuggiti a centinaia dopo l’armistizio dai campi di prigionia nel padovano e braccati dai nazifascisti. Per il loro difficile trasporto verso la neutrale Svizzera “aveva fino dai primi giorni organizzato un fidato gruppo di ferrovieri”. Altri ex prigionieri furono da lui avviati verso le zone della Jugoslavia occupate dai partigiani, altri ancora condotti alle foci dei fiumi da dove furtive imbarcazioni li trasportavano in porti sicuri.

Con lui parteciparono a quella vasta opera di umanità e carità fraterna il Servo di Dio padre Placido Cortese dei Minori conventuali di S. Antonio, arrestato l’8 ottobre 1944 e torturato a morte dalle SS a Trieste; don Mario Zanin, cappellano del Bassanello; i padri Angelo Marincich e Stefano Graiff dei Benedettini di S. Giustina; don Antonio Varotto, parroco di S. Prosdocimo; don Giovanni Fortin, parroco di Terranegra, arrestato il 14 dicembre 1943 e deportato a Dachau; padre Domenico Artero, ex cappellano dei prigionieri di guerra.

L’11 ottobre 1943 il partito fascista costituì la squadra d’azione intitolata a Ettore Muti, poi divenuta battaglione ausiliario della Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.), formata da un centinaio di militi effettivi e adibita a “speciali servizi di polizia politica” da svolgere “a fianco degli alleati germanici in fraterna cameratesca collaborazione”. La “Muti” padovana esordì la notte del 15 novembre 1943 a Ferrara, dove ai piedi del Castello Estense trucidò dieci vecchi antifascisti ferraresi.

Mario Todesco fu tra i primi ad aiutare, con suo grave pericolo, gli ebrei perseguitati e i soldati britannici

Il 17 novembre 1943, insieme al cugino Lodovico “Vico” Todesco (il cui nome di battaglia era "Capitano Giorgi" e in seguito sarebbe caduto eroicamente nella difesa del Grappa durante il grande rastrellamento di settembre 1944) appena sceso dalle montagne per procurare indumenti pesanti per i suoi uomini, Mario incontrò Otello Pighin, assistente a Ingegneria, che requisì a mano armata 450 pastrani militari. Il 29 novembre 1943, per opera di due agenti provocatori della G.N.R. coi quali si incontrarono al “Bar Borsa”, i cugini vennero arrestati con l’accusa di organizzazione di ribelli e condotti alla caserma “Mussolini” in via Cesarotti.

L’11 dicembre furono trasferiti nel carcere dei Paolotti, dove tennero un comportamento calmo e coraggioso. Sopportando minacce, umiliazioni, privazioni e percosse, negarono ogni accusa. Durante il bombardamento aereo del 16 dicembre Mario Todesco, incurante delle raffiche sparate dalle SS, si adoperò per riportare la calma tra la massa terrorizzata e urlante dei detenuti. Deferito al tribunale di guerra tedesco, fu liberato il 13 marzo 1944 dal giudice August Kaiser, che manifestò comprensione per il suo alto sentimento patriottico.

Per stroncare la Resistenza il 17 giugno 1944 il feldmaresciallo Kesselring, comandante del fronte Sud, impartì ordini brutali e spietati sul trattamento dei ribelli e della popolazione, garantendo l’impunità agli esecutori. Subito anche Mussolini adottò misure drastiche e militarizzò il partito costituendo le Brigate nere, che sostituirono la G.N.R. A Padova fu formata la 18a Brigata nera “G. Begon”, votata a violenza e illegalità. Il 25 giugno 1944 il duce telegrafò anche ai capi delle province un messaggio in cui rimproverava i “leoni vegetarianiper lo scarso numero di esecuzioni di civili e militari. I vertici del fascismo padovano furono così sostituiti e il nuovo capo della provincia e il nuovo segretario federale iniziarono subito a stroncare ogni resistenza col terrore.

La prima vittima fu proprio Mario Todesco, che fu arrestato il 27 giugno dai militi della “Muti” e condotto nella sede di via Giordano Bruno, presso il gruppo rionale fascista “N. Bonservizi” (ora C.U.S.), dove fu seviziato. All’1.30 del 29 giugno 1944 venne portato in via Emanuele Filiberto, finito a colpi d’arma da fuoco e gettato davanti al “Bar Borsa”.  Quella orrenda notte furono barbaramente uccisi dalla “Muti” anche Alfio Marangoni, Italo Cavalli e Gino Luisari, compagni di lotta di Todesco.

Nessun magistrato ebbe il coraggio di indagare. La stampa cittadina, asservita, pubblicò versioni dei fatti reticenti o fantasiose. Il notiziario della G.N.R. accennò a “energiche lezioni”. Solo un foglietto clandestino scritto dal prof. Meneghetti rese noto ai cittadini l’assassinio del prof. Todesco. Mario Todesco fu sepolto nella chiesetta di S. Giovanni ai Colli Alti da don Nervo, riferimento per i partigiani del Grappa e futuro fondatore della Caritas Italiana. Il padre, Venanzio, professore di Filologia romanza, fu allontanato dall’insegnamento.

A Mario Todesco fu intitolato il battaglione autonomo collegato alla Brigata universitaria “S. Trentin” e comandato dal capitano Angelo Zamboni, che comprendeva molti carabinieri e militari del 58° Fanteria datisi alla macchia. Il 28 aprile 1946 nel chiostro del liceo “T. Livio” fu scoperta una lapide in latino a ricordo del magister Mario Todesco e dei quattro alumni caduti nella lotta per la Liberazione. A prendere la parola fu il prof. Adolfo Zamboni, non in veste di provveditore agli studi ma del compagno che era stato più vicino a Todesco nella lotta cospirativa. Di lui esaltò l’indomito spirito di ribellione perché in tempi di tirannide – disse citando Mazzini – “non v’è carriera più santa al mondo di quella del cospiratore che si costituisce vindice dell’umanità”.

Il processo al comandante e a sei militi della “Muti”, uno tra i primi celebrati dalla Corte straordinaria d’Assise di Padova, si concluse con tre condanne a morte mediante fucilazione alla schiena, eseguite il 25 agosto 1945, e tre a lunghe pene detentive, poi ridotte. Molti altri crimini restarono impuniti per effetto dell’amnistia del 1946, promulgata poco dopo l’istituzione della Repubblica, che “nell’illusione di raggiungere una distensione" fu invece "un oltraggio ai morti e una beffa ai vivi” (secondo le parole sono di Antonio Frasson, contenute in Mario Todesco. Testimonianze e ricordi , a cura di Lino Lazzarini,  Zanocco, Padova, 1946). Col prevalere dei partiti di massa e la diaspora dei suoi aderenti, il Partito d’Azione si disciolse nel 1947, lasciando in eredità i suoi valori di giustizia e libertà.

Erano passati appena cinque anni dalla morte del prof. Todesco quando a pochi metri dal luogo del suo martirio tornò a risuonare potente “la risorta voce del fascismo”, di quel fascismo che in realtà "non è mai morto”, come disse l’onorevole Marchesi nella sua interrogazione al Ministro dell’interno nella seduta della Camera del 18 maggio 1949. L’ex Rettore Marchesi deplorò la provocazione dell’onorevole Almirante, che aveva voluto tenere un comizio esaltatore del fascismo proprio alla vigilia del 25 aprile e nella piazza dedicata all’Insurrezione. I professori Meneghetti e Morin e altri patrioti presenti in piazza per protestare erano stati bastonati dagli agenti della Celere di Padova; un manganello era stato addirittura spezzato sulla testa dell’on. Clocchiatti. Tra i celerini c’erano anche “vecchi squadristi e vecchi appartenenti alle brigate nere”, come rimarcò l’on. Cessi, professore di storia medievale e moderna all’università.

Vennero poi gli anni dell’oblio. Nel 1993, tra l’indifferenza generale, alla scuola media “Mario Todesco” fu cambiato il nome, che fu ripristinato solo nel 2004. Nel 2008 fu conferita alla memoria del prof. Todesco la Medaglia d’oro al Merito Civile. Nel 2009 nel luogo del suo martirio fu solennemente posta una lapide.

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