
Donne partigiane a Milano - ARCHIVIO/A3/CONTRASTO
La Resistenza l’hanno fatta insieme, uomini e donne. Non c'erano gli eroi che combattevano e le ragazze che li assistevano. Ma ci sono voluti anni perché questo risultasse evidente a tutti quelli che la storia partigiana la raccontavano, la ricordavano, la diffondevano. È successo e succede ancora oggi che nelle rivoluzioni, nei momenti di grande cambiamento, nei movimenti di resistenza soprattutto le persone giovani, di tutti i generi, siano protagoniste e spingano insieme per il cambiamento. In anni molto più vicini a noi di quelli della seconda guerra mondiale questo è stato vero, per fare solo due esempi, per il Chiapas zapatista in Messico e per il movimento di resistenza curda del Rojava nel nord della Siria. Donne in primo piano, che partecipano a pieno titolo e spesso sono non solo protagoniste ma innovatrici e iniziatrici di un processo di cambiamento profondo delle società. Ma altrettanto spesso capita che poi, nella normalizzazione dei periodi successivi, se e quando c'è normalizzazione, questo ruolo venga se non dimenticato, ridotto a quello di persone comprimarie.
Con il finire del ‘900, anche grazie al lavoro indefesso delle donne partigiane, che la loro storia hanno continuato a raccontarla, e dei movimenti femministi che hanno animato i decenni successivi, è emersa una fotografia più nitida e veritiera sul loro ruolo. Sono arrivati i primi libri. E poi diversi studi. Ed è diventato chiaro che le donne, nella Resistenza, hanno attivamente combattuto, portato armi, organizzato operazioni, giocando ruoli di primo piano e non solo di supporto. In ordine sparso, e senza alcuna pretesa di continuità, vi proponiamo un piccolo percorso tra alcune di queste storie e i documenti che ci permettono di conoscerle. È una scelta assolutamente personale e arbitraria che vuole solo innescare curiosità nei confronti di storie che non hanno visto nei decenni successivi alla guerra un immediato riconoscimento e che solo in tempi recenti stanno trovando il giusto spazio e una voce propria. Lo dicevamo già in un articolo recente su Il Bo Live, Essere partigiane oggi: il coraggio di prendere posizione, a firma di Anna Cortelazzo.
Per chi, come chi scrive, anche per ragioni anagrafiche, è cresciuta immersa nei racconti e nei ricordi di nonni e amici e insegnanti sulle storie partigiane, non c’è dubbio che il ricollocamento nelle seconde file è avvenuto. Sentivo parlare delle staffette partigiane, di quelle donne che non imbracciavano le armi ma con la bicicletta facevano da collegamento, portavano messaggi, a volte viveri. Ma poi le scuole, le piazze, le targhe erano spesso intitolate ai partigiani. E della staffetta si parlava sempre un po’ in tono minore, come se il solo fatto di non imbracciare un’arma, cosa che peraltro molte partigiane hanno fatto, significasse un rischio minore. Ma non era affatto un compito semplice. Avventurarsi da sole su due ruote per collegare paesi e rifugi, città e montagna, richiedeva una grande resistenza fisica e un controllo ferreo delle proprie emozioni in caso di posto di blocco. Era un ruolo chiave nell’organizzazione della Resistenza e permetteva di mantenere attiva la rete logistica e quella informativa. E quando erano intercettate il rischio, per molte diventato realtà, era quello di essere torturate. E spesso, come avviene in guerra, stuprate e uccise.
Lo sottolinea in diversi suoi scritti Lidia Menapace, partigiana e giovanissima staffetta, e poi politica, pacifista e femminista, molto attiva fino alla sua morte nel 2020, che solo qualche anno prima, nel 2017, ha pubblicato “Io, partigiana” per Manni editore, un libro in cui racconta la sua esperienza nella Resistenza. Lo racconta molto bene il documentario di Daniele Segre uscito nel 2016, “Nome di battaglia Donna”, di cui condividiamo qui il trailer, che ci porta a conoscere direttamente le storie, le voci, le facce di alcune partigiane piemontesi.
Grazie al lavoro di continuo aggiornamento dell’ANPI e dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, la rete degli istituti per la Storia della Resistenza e dell'età contemporanea, oggi conosciamo molte storie di donne partigiane e capiamo anche la dimensione della partecipazione femminile alla Resistenza. Sul sito ANPI il contributo di uomini e donne è anche tradotto in cifre:
“È stato calcolato che i Caduti nella Resistenza italiana (in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti), siano stati complessivamente circa 44700; altri 21200 rimasero mutilati o invalidi. Tra partigiani e soldati italiani caddero combattendo almeno 40 mila uomini (10260 furono i militari della sola Divisione Acqui, Caduti a Cefalonia e Corfù). Altri 40 mila IMI (Internati Militari Italiani), morirono nei Lager nazisti. Le donne partigiane combattenti furono 35 mila, e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna. 4653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2750 vennero deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate. 1070 caddero in combattimento, 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d'oro al valor militare.”
Irma Bandiera, la partigiana Mimma
Una delle partigiane simbolo della tenacia e della forza di volontà delle donne della Resistenza, risoluta e affidabile fino a perdere la vita pur di non tradire i compagni, è Irma Bandiera, nata a Bologna nel 1915 in una famiglia benestante ed antifascista e cresciuta tra la città e il paese di Funo, dove la nonna aveva una casa di campagna e una bottega di alimentari e tabacco. A Funo Irma incontra altri ragazzi già impegnati in attività antifasciste a partire dal 1942. Dopo l’8 settembre il suo fidanzato, Federico Cremonini, viene fatto prigioniero dai tedeschi e mandato a Creta, ma la nave che lo trasporta viene bombardata e di lui non si saprà più nulla. Mimma è sempre più attiva sul fronte antifascista, anche con il supporto della famiglia che rifornisce spesso di alimenti e sigarette i giovani che vivono in clandestinità. Nel corso del ‘43, Irma Bandiera entra nella 7a brigata GAP Garibaldi, col nome di battaglia Mimma.
Nei mesi successivi il piccolo paese di Funo diventa un importante centro della Resistenza, e Mimma lavora assieme a molte altre persone, tra cui anche Nicoletta, nome di battaglia di Ena Frazzoni, professoressa bolognese sfollata dalla città e coordinatrice delle staffette del Comando unico militare dell’Emilia-Romagna. Arriva il 1944, la Resistenza è ormai pienamente organizzata e Mimma è sempre più coinvolta anche in azioni molto rischiose come partigiana combattente nella brigata d’assalto, facendo base logistica a casa sua a Bologna e spostandosi tra la città e Funo. Il 7 agosto, dopo aver effettuato una consegna di armi a Castelmaggiore, viene arrestata nel corso della notte. Per una settimana la interrogano, la torturano, l’accecano perfino, ma non confessa mai i nomi dei suoi compagni né fornisce alcuna informazione. L’ultimatum lo riceve davanti a casa dei suoi genitori, al Meloncello, con la suggestione di essere liberata, ma lei non cede. I fascisti la uccidono e lasciano il corpo esposto pubblicamente per un giorno intero prima che la famiglia possa seppellirla, in una via che ora porta il suo nome. Nel 1950 fu insignita della Medaglia d'oro al valor militare alla memoria, con la motivazione “Prima fra le donne bolognesi ad impugnare le armi per la lotta nel nome della libertà". La storia di Irma Bandiera è stata raccontata, assieme a quelle di altre dodici partigiane, in un libro pubblicato nel primo decennale della Resistenza, nel 1955, da Renata Viganò, altra partigiana bolognese, operaia e infermiera ma soprattutto scrittrice, autrice del famosissimo “L’Agnese va a morire”, profondamente ispirato all’esperienza partigiana, uscito nel 1949 e tradotto in moltissime lingue.
Dal 24 aprile 2017 il volto di Mimma guarda alla città dalla facciata della scuola primaria Bombicci di Bologna, nel suo stesso quartiere. Un grande murales è stato realizzato dai collettivi artistici di Orticanoodles e Cheap, in collaborazione con il quartiere Porto-Saragozza e con l’istituto comprensivo 8 che l’ha fortemente voluto come testimonianza visuale e colorata di coraggio e senso civico per le generazioni future.
Tina Merlin, partigiana delle montagne
Staffetta partigiana di montagna è stata Tina Merlin, la giornalista che poi, negli anni successivi è diventata nota per aver difeso le popolazioni delle sue montagne bellunesi durante tutta la tragica vicenda del Vajont. E poi, ancora, per aver sempre denunciato le distruzioni ambientali e il sacrificio delle risorse naturali del Veneto per mano delle grandi compagnie e le istituzioni compiacenti durante tutta la fase dello sviluppo industriale degli anni ‘60 e ‘70, senza alcuna attenzione verso chi, in quelle terre, ci abitava.
Nata nel 1925 da una famiglia di contadini, dopo essere andata “a servizio” a Milano, Tina Merlin rientra a Belluno dopo l’inizio della guerra ed entra nella Resistenza dopo l’8 settembre, motivata e spinta dall’adorato fratello Toni, che morirà ucciso dai tedeschi a pochissimi giorni dalla liberazione. Tina Merlin è una staffetta che porta i messaggi oltre le linee nemiche, e racconterà questa esperienza, molti anni dopo, nel documentario “Ragazze in bicicletta” di Guido Beretta, prodotto originariamente nel 1992 e poi restaurato nel 2022 e ora disponibile su You Tube, che propone le voci e le storie di tredici partigiane bellunesi.
A Tina Merlin, noi del Bo Live abbiamo dedicato la prima puntata del nostro podcast She, green, riascoltabile qui e su tutte le piattaforme.
Laura Conti, medica e partigiana
She, green racconta la storia anche di un’altra partigiana, Laura Conti, medica e politica, nata a Udine nel 1921 da genitori laici e socialisti, che la fanno studiare e la crescono in un clima di profonda critica ai regimi autoritari. A sei anni Laura Conti è a Milano, dove continuerà gli studi e dove, dopo la guerra, diventerà molto attiva nel campo della medicina del lavoro e dell’ambiente.
Nota per il suo ruolo centrale nel disastro di Seveso, a metà anni ‘70, quando si schierò in modo netto dalla parte della popolazione colpita dalla fuoriuscita di diossina dagli impianti ICMESA e promosse l’idea di una medicina attenta agli effetti ambientali sulle persone, Laura Conti inizia la sua attività politica molto prima. Iscritta a Medicina, una facoltà con pochissime donne in quegli anni, nel 1943 interrompe gli studi e diventa attiva nella Resistenza. Arrestata e internata nel campo di concentramento di Bolzano, è testimone attiva di come la scienza, in questo caso la scienza medica, possa essere utilizzata in modo distorto per aumentare le sofferenze umane invece che per diminuirle. Dal campo passano molti prigionieri in transito per i campi di concentramento e sterminio della Germania e della Polonia e le sentinelle, le guardie e perfino il personale medico fanno esperimenti medici attuando deprivazioni controllate e vere e proprie torture nei confronti dei prigionieri.
Dopo la liberazione, Laura Conti, torna a Milano e inizia la sua attività pubblicando decine di saggi e libri, e lavorando sul campo. A lei si deve la promozione e infine la messa a punto della famosa direttiva Seveso che per prima norma il controllo dei rischi industriali in Europa. Eppure, nonostante questo enorme contributo non solo alla vita pubblica e politica ma proprio alla salute delle persone, Laura Conti, morta a inizio anni ‘90, è stata di fatto dimenticata per un ventennio. Si deve a un bel libro pubblicato da Valeria Fieramonte uscito nel 2021, nel centenario della nascita, per le edizioni Enciclopedia delle donne, “La via di Laura Conti”, se la sua storia è nuovamente raccontata. Nello stesso anno, Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi pubblicano “Laura non c’è”, per le edizioni Fandango, un libro di dialoghi e incontri con donne che riflettono sui temi per i quali Laura Conti si è spesa tutta la vita.
Tina Anselmi, partigiana Gabriella e prima ministra della Repubblica
Finiamo il nostro piccolo percorso, secondo una linea arbitraria e personale, parlando di Tina Anselmi. Un po’ perché di lei, chi scrive, ha sentito parlare fin da piccola, per vicinanza geografica e storia familiare. Una persona a me cara, a sua volta staffetta partigiana, parlava spesso “della Tina” con cui aveva condiviso quell’esperienza, negli anni in cui Anselmi era ormai una politica affermata a livello nazionale. Compagne di scuola, prima, e partigiane negli stessi luoghi poi. Tina Anselmi era nata a Castelfranco Veneto nel 1927, da una famiglia vivace e benestante. Aveva iniziato a studiare al ginnasio e poi all’istituto magistrale di Bassano del Grappa, entrando fin da giovane nella gioventù dell’Azione cattolica. Dopo aver assistito all’impiccagione pubblica di un folto gruppo di prigionieri catturati sul Grappa da parte dei nazifascisti, a fine settembre 1944, Tina Anselmi decide di entrare nella Resistenza, con il nome di battaglia di Gabriella, inizialmente come staffetta nella brigata Cesare Battisti. Sta ancora frequentando le magistrali, ed è proprio il fatto di usare la bicicletta per andare a scuola da Castelfranco e Bassano che le permette di muoversi più liberamente. Nello stesso periodo entra nella Democrazia Cristiana, suo partito di riferimento per tutta la vita. La sua attività come partigiana è così centrale nella Resistenza del suo paese che partecipa il 28 aprile del 1945 alle trattative con il comando tedesco per favorire una liberazione pacifica del suo paese. “Per cambiare il mondo bisogna esserci” è una frase che le viene attribuita in diverse pubblicazioni. Al di là delle parole precise, in diverse occasioni Anselmi ha sottolineato la centralità dell’impegno e della partecipazione nella costruzione e nella difesa della democrazia.
Dopo la guerra, Tina Anselmi studia lettere all’Università Cattolica di Milano e diventa insegnante. Nel frattempo inizia un impegno nel sindacato occupandosi del settore tessile della sua zona, continua l’attività di partito e comincia ad avere ruoli sempre più importanti nel Movimento femminile della DC. Dal 1955, dieci anni dopo la fine della guerra, lascia la scuola e inizia una carriera politica a livello nazionale. Lavorerà incessantemente sui temi della formazione e della scuola, ma anche su quelli della salute. E sarà la prima donna a ricoprire la carica di ministra in Italia, nel 1976, nel governo di Giulio Andreotti, al Ministero del Lavoro. Due anni dopo è Ministra della salute e sua, pur se profondamente cattolica, è la firma sulla legge 194 che introduce la tutela della maternità e il diritto all’aborto nel nostro paese, oltre all'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.
“ Non posso fallire (...) perché un mio fallimento non coinvolgerebbe solo me. Io sono soltanto lo strumento attraverso il quale si è superata una barriera, è caduto un tabù: le donne possono e debbono partecipare al governo del Paese. Tina Anselmi, Ministra del Lavoro, 1976
Deputata dal 1968 al 1992, nei collegi di Venezia e Treviso, Anselmi sarà anche presidente della Commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2 nella prima metà degli anni ‘80. I risultati di quel lavoro, in cui mette lo stesso rigore che la caratterizza in tutte le sue battaglie, la rendono invisa a una classe politica, prettamente maschile, in cui corruzione e compromesso sono monete correnti. Più volte, inutilmente, negli ultimi anni della sua carriera, è stata proposta come candidata per la carica di Presidente della Repubblica. La sua lunga e articolata storia umana e politica, caratterizzata sempre da un immenso rispetto per la democrazia, è raccontata in una serie di libri pubblicati dalla CISL Veneto, a cura dello storico Mauro Pitteri. L’ultima pubblicazione, di fine marzo, è intitolata “Tina Anselmi Maestra. Educatrice per vocazione”.
Ci fermiamo qui, ma speriamo di aver innescato un interesse per le storie delle donne partigiane. Che spesso poi, dopo la guerra, come quelle raccontate qui, hanno continuato a lavorare per il bene comune, con coraggio e determinazione, difendendo i diritti delle donne e contribuendo a pagine importanti di emancipazione del nostro paese. Dovremmo provare a scriverle tutte, queste storie, raccogliendo le testimonianze che ancora ci sono e che rischiano di andare perdute, o a raccontarle nelle scuole e in tutti quei contesti collettivi dove è necessario, oggi di nuovo e più che mai, costruire e difendere la democrazia contro l’ondata crescente di autoritarismi, pericolosi nel presente come in passato. E non c’è dubbio che dobbiamo impegnarci sempre di più per una società paritaria e realmente inclusiva, dove le persone trovino uno spazio e un riconoscimento, pubblico e nelle proprie comunità di riferimento, al di là del genere e del luogo di provenienza.