SOCIETÀ

Nato un nuovo organismo ONU per la pesca, ma le sfide rimangono alte

C’è un nuovo organismo internazionale che si occupa della pesca a livello globale. Nel gergo burocratico delle Nazioni Unite si chiama Sub-Committee on Fisheries Management, cioè la Sottocommissione per la gestione della pesca (COFI). Sottocommissione perché dipende dalla FAO, ovvero l’agenzia dell’ONU che si occupa di cibo e agricoltura. Si è riunita per la prima volta a metà gennaio 2024 a Roma, nella sede FAO, e ha dichiarato quali sono i propri obiettivi. In primo luogo, si legge nel comunicato che annuncia il meeting, lavorare su “migliori pratiche e approcci per la gestione efficace delle risorse della pesca”, in un contesto in cui è sempre più cruciale stimare lo stato e la salute degli stock ittici marini del mondo per garantire la sostenibilità ambientale della pesca.

In questa direzione vanno anche le dichiarazioni programmatiche di Qu Dongyu, l’attuale direttore generale della FAO. “Resta fondamentale migliorare la gestione globale della pesca per riportare gli ecosistemi a uno stato sano e produttivo e per proteggere l’approvvigionamento a lungo termine di alimenti acquatici”, ha dichiarato a margine del primo meeting del COFI. Il tema dell’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche, infatti, è al centro di attività di studio e lobbying nei confronti dei decisori politici che la FAO conduce dagli anni Settanta del secolo scorso. La raccolta di dati statistici sulla pesca fa parte, infatti, del mandato che la FAO è obbligata a portare avanti fin dal 1950 perché è inserito in uno degli articoli della sua costituzione firmata nel 1945. 

I dati dell’overfishing e del calo degli stock ittici

Dal 1971, inoltre, ogni due anni pubblica il report The State of World Fisheries and Aquaculture. Nell’ultima edizione, pubblicata nel 2022, gli autori sottolineavano l’aumento considerevole della pesca (sia di animali allo stato selvatico, sia di animali allevati), con un record di 178 milioni di tonnellate di pescato a cui si devono aggiungere 36 milioni di alghe raccolte nel 2020. Rispetto al dato del biennio precedente, si tratta di un aumento leggero (il 3%), ma già nel 2018 si parlava di un record (213 milioni di tonnellate). L’entità modesta della crescita è dovuta a un motivo che, in realtà, desta più di una preoccupazione. Si legge infatti nel rapporto, che “la crescita limitata è causata principalmente da un calo del 4,4% nella pesca di cattura dovuto alla riduzione delle catture di specie pelagiche, in particolare l’acciuga, a una riduzione delle catture in Cina e agli impatti della pandemia di COVID-19 nel 2020”. La pesca ha rallentato, ma senza che ci fosse una contrazione reale, per colpa della pandemia.

 

Come si vede nel grafico tratto dal rapporto FAO, non si tratta solamente del record degli ultimi anni, ma di una tendenza consolidata nel corso degli ultimi decenni: lo sfruttamento della pesca è cresciuto moltissimo. Uno dei punti chiave del documento, infatti, è che nonostante questa situazione sia nota da tempo, “le risorse ittiche continuano a diminuire a causa dell’overfishing, dell’inquinamento, della cattiva gestione e di altre cause”. Anche la percentuale di pescato “biologicamente sostenibile” è sceso leggermente, dell’1,2%, tra il 2017 e il 2019.

Negli ultimi decenni, la diminuzione della disponibilità di pescato selvatico ha fatto aumentare consistentemente il ruolo dell’allevamento di diverse categorie di pesci, crostacei e molluschi, ma anche di alghe.

Il ruolo centrale dell’Asia

Tra i maggiori protagonisti di questo aumento c’è sicuramente la Cina, che risulta di gran lunga il paese che ha visto crescere di più il proprio ruolo in termini di pesca e allevamento a livello globale. Ma, come mostrano i dati della FAO, è in generale il continente asiatico che ha il principale ruolo nel settore.

Come abbiamo scritto in un recente articolo, è proprio in Asia che si concentra la maggior parte della presunta pesca illegale a livello mondiale. Secondo la ricerca condotta da Global Fishing Watch, un’organizzazione non governativa americana, nel periodo 2017-2021, infatti, 3 pescherecci commerciali su 4 non erano mappati perché non dotati di transponder. Sono chiamati “dark ships”, navi invisibili o fantasma, e la loro attività si concentra in tratti di mare come quelli al largo della Corea del Nord o tra Indonesia e Australia: aree che, è noto da altri studi, sono soggette a intensa attività di pesca illegale.

Quella della lotta alla pesca illegale è anche una delle azioni che lo stesso Qu Dongyu ha descritto come fondamentali per il nuovo COFI. Non basta infatti ripristinare gli ecosistemi troppo sfruttati, ma si deve lavorare anche “[al]l’eliminazione della pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata”. Non è però chiaro con quali strumenti COFI possa agire su questo punto. Come sottolinea Global Fishing Watch, proprio i paesi asiatici responsabili di molta delle pesca (legale e illegale) non richiedono ai pescherecci che navigano nelle proprie acque di comunicare i dati di navigazione, di fatto favorendo il fenomeno delle navi invisibili.

Come giustamente sottolineano le dichiarazioni di intenti del primo meeting COFI, l’impoverimento delle risorse idriche da parte di pescatori illegali industriali ha anche l’effetto secondario di mettere a repentaglio le risorse di cibo e lavoro per quelle popolazioni fragili che fanno della pesca di sussistenza il principale mezzo di sostentamento. Sono una parte consistente del mezzo miliardo di persone che in tutto il mondo vivono di pesca e attività collegate.

Uno degli obiettivi dichiarati del COFI è quello di contribuire a contrastare questa situazione realizzando un miglioramento consistente della raccolta di statistiche di settore. Sapere è il primo passo per agire, ma serve anche che COFI trovi modi diversi da quelli usati finora per richiedere ai governi di rispettare i limiti di pesca, sia in termini di aree protette, sia in termini di quantità pescate.

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