SCIENZA E RICERCA

La riserva dello Zingaro e la fragilità delle aree protette

A 40 anni dalla sua fondazione la Riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, è stata bruciata quasi completamente. Nella notte tra il 29 e il 30 agosto l’area protetta, istituita nel 1981, è stata avvolta dalle fiamme. Caldo secco, piogge assenti da settimane e raffiche di scirocco che hanno raggiunto picchi di 40 km/h hanno fatto divampare l’incendio, che in ventiquattro ore consecutive ha spazzato via 1300 dei 1600 ettari protetti. Poco o nulla di quei 7 chilometri a picco sul mare, tra Scopello e San Vito Lo Capo, sembra essere stato risparmiato dal fuoco. 

Sono sparite così le bellissime palme nane simbolo della Riserva naturale orientata Zingaro, che ospitava oltre 500 specie di piante, di cui 40 endemiche. Ad esempio il rarissimo limonio di Todaro (Limonium todaroanum), già classificata come specie in pericolo critico prima dell’incendio perché viveva solo a 750 m di altezza, sulle rupi di Monte Passo del Lupo.

Neanche gli animali sembrano essere riusciti a sfuggire all’inferno: qualcuno di loro è stato trovato in mare, molti altri carbonizzati, e dei cavalli che vivevano lì allo stato brado non c’è più traccia.

La Riserva naturale siciliana ospitava 39 specie di uccelli nidificanti, tra cui l’aquila del Bonelli: un rapace quasi estinto in Italia e rimasto ormai solo in Sicilia. L’area, poi, era la casa di innumerevoli specie di mammiferi comuni, dai cinghiali alle volpi, passando per i porcospini, e di altri animali endemici come il discoglosso dipinto, un anfibio marroncino grande circa 7 centimetri, e la cavalletta panfago, incapace di volare. Specie, queste ultime due, presenti solo in Sicilia e dall’altra parte del Mediterraneo, in Tunisia e Algeria. Cosa che ci ricorda che siamo solo un pezzetto di Africa incastonato nel continente europeo.

Così nell’ultimo weekend di agosto è andato tutto in fumo. Ettari di bellezza, piante e animali endemici e rari bruciati senza possibilità di fuga. Certo, la Riserva dello Zingaro non è l’unica ad essere stata divorata dalle fiamme nell’estate del 2020. Come si vede dalla mappa di “Italia a Fuoco” nei mesi estivi l’Italia centro-meridionale è stata costellata di incendi: solo dal 15 giugno al 1 agosto se ne contano più di 20.000. E negli ultimi giorni di agosto, complice lo scirocco, sono andati a fuoco anche altri siti protetti, come lo splendido Sentiero degli Dei, in Campania, nel Parco Regionale dei Monti Lattari e le dune secolari della spiaggia di Punta delle Penne, nella Riserve di Punta Aderci, in Abruzzo.

Ma perché allora parliamo proprio della Riserva naturale orientata Zingaro? Perché qui, forse, si sono sommati tutti i problemi italiani nella gestione di incendi dolosi. 

Lo Zingaro rappresenta, tristemente, un esempio da cui dobbiamo imparare ed è sicuramente l’area protetta che ha subìto maggiori danni: ad oggi, sul sito ufficiale della riserva si legge che «a causa dell’incendio del 29 agosto scorso, la Riserva naturale dello Zingaro è chiusa al pubblico fino a data da destinarsi». La prima area protetta istituita in Sicilia è così costretta a chiudere i battenti. Il danno è irreparabile, perché prima che la Riserva riuscirà a risorgere dalle ceneri – se mai ci riuscirà – ci vorranno anni, forse 10 o 15.

Prima di capire come e se c’è qualche possibilità, dobbiamo capire cosa non ha funzionato.

È evidente che per la Riserva siciliana, così come in molte altre aree d’Italia, la prevenzione – anche quando c’è – non è sufficiente. C’è ancora molto da lavorare sia per sensibilizzare i singoli cittadini sul rischio incendi, sia sul fronte della prevenzione e del controllo dei territori.

L’incendio dello Zingaro infatti non è casuale. Non si è trattato di un incendio colposo, generato da comportamenti irresponsabili o da un incidente, come un cortocircuito. E, a dirla tutta, sono anni che l’area protetta affronta ampi incendi: certo nessuno di questa portata, prima di questo maledetto 29 agosto. Ma è chiaro che la matrice è dolosa: i punti di innesco sono stati diversi, pare una decina; il fuoco è stato appiccato la sera quando i mezzi aerei nulla possono e con il favore del vento, con lo scirocco secco e caldo. Senza contare che una tale devastazione per lo Zingaro è arrivata all’anniversario dei 40 anni dell’istituzione della Riserva, mentre si progettava di estendere il regime protetto anche all’area marina antistante, fino ad oggi esclusa.

I motivi non sono chiari, ma ci si può fare un’idea se si ricorda la storia dello Zingaro, istituita con la legge regionale 98/1981 dopo anni di proteste. Nel 1976, infatti, iniziarono i lavori per la costruzione della litoranea Scopello-San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani. La Riserva non esisteva e al suo posto si progettava appunto una strada di circa sette chilometri che avrebbe tagliato un’area ricca di biodiversità. Solo dopo quattro anni di proteste da parte di naturalisti e del mondo ambientalista, culminati con la marcia del 18 maggio 1980, l’Azienda Regionale Foreste Demaniali della regione Sicilia, riconoscendone il valore naturalistico, decise di espropriare l’area dello Zingaro e di istituire la riserva. Che, a quel punto, è di certo diventata scomoda e ingombrante per chi aveva mire espansionistiche per le sue speculazioni edilizie.

La matrice dolosa, purtroppo, è evidente e accomuna buona parte degli incendi che ogni anno divampano sul suolo italiano. Oltre a investire sulla prevenzione e sul controllo del territorio, occorre quindi chiamare le cose col proprio nome.

L’Italia non è un paese di piromani. È un paese in cui la biodiversità – patrimonio comune – ancora non è tutelata a dovere ed è vittima di continui attacchi da parte di criminali che spesso restano nell’ombra e non vengono assicurati alla giustizia perché non ci sono indiziati o prove sufficienti.

Se non risolviamo in primis questi tre grossi problemi – prevenzione, controllo dei territori sensibili e leggi più severe in materia ambientale – ogni estate assisteremo a scempi del genere. Incendi che devastano interi territori, distruggendo non solo ettari di vegetazione magari protetta, ma che mandano in fumo anche il tessuto socioeconomico di interi territori che si basano sul turismo estivo, come nel caso dello Zingaro.

Come sempre, nasce spontanea la domanda: “tornerà come prima?”.

Nel caso della Riserva dello Zingaro la situazione è davvero critica. Non solo perché, come detto, l’area protetta è stata quasi completamente distrutta: di 1600 ettari se ne sono salvati solo 300, intorno a qualche abitazione e non nei punti di massima biodiversità. Per cui fauna e flora, come varietà e numerosità, sono state drasticamente ridotte. Ma perché l’incendio potrebbe aver strappato per sempre allo Zingaro il suo valore naturalistico: non è detto che la vegetazione che ricrescerà avrà la stessa variabilità genetica, la stessa ricchezza di specie e che l’area tornerà ad essere un ecosistema ricco di endemismi come lo era fino a pochi giorni fa. Insomma, stavolta, l’esistenza stessa della Riserva, della sua missione, è stata minata.

Se è vero che alcune piante della macchia mediterranea hanno bisogno del fuoco per gettare i semi o per farli germogliare, è pur vero che si sono adattate solo a determinati regimi di fuoco: cioè al passaggio delle fiamme con una data periodicità, lontana nel tempo, e con specifiche temperature. Non ad un fuoco che ha avvolto 1300 ettari per 24 ore consecutive consumando tutto. E arrivato a soli 3 anni dall’incendio del 2017 e a 8 dal 2012.

Quelle piante ridotte a tizzoni non hanno più nulla da offrire. La ricolonizzazione naturale del territorio potrà avvenire solo a partire da quei 300 ettari risparmiati, che non sono un campione rappresentativo della biodiversità inter e intraspecifica della Riserva, purtroppo. Inoltre in questo scenario di devastazione hanno gioco facile le specie aliene, veloci colonizzatrici, che tolgono spazio e risorse alle specie endemiche.

Ci vorranno decenni per osservare di nuovo un paesaggio vegetale simile a quello pre-incendio, con tutta probabilità meno “ricco”. E non è detto, poi, che l’aquila del Bonelli, il panfago o il discoglosso dipinto eleggeranno quell’area nuovamente a loro dimora.

Ma i danni di un incendio di tale portata non finiscono certo qui: questi sono quelli macroscopici, ben visibili a tutti sul momento. Un incendio tuttavia porte con sé una scia di devastazione più sottile e subdola destinata a durare negli anni. Non parliamo solo di qualità dell’aria, che è forse la prima cosa a cui viene da pensare visto che un incendio consuma ossigeno, rilascia gas serra e a volte anche sostanze tossiche, come diossina. Senza copertura vegetale, infatti, si va incontro a una serie di altri problemi: il rischio idrogeologico, di frane, smottamenti e colate di fango ai primi temporali aumenta vertiginosamente; le piante ormai perdute non forniranno più il loro contributo nel ripulire l’aria e nel regolare la temperatura al suolo, che aumenterà inesorabilmente. Vengono meno insomma tutti quei servizi ecosistemici che la semplice esistenza di un’area naturale ci regala ogni giorno, compresa la bellezza di un paesaggio naturale mozzafiato di cui godere, e che da solo genera un notevole indotto economico.

Il terzo e importantissimo punto, quindi, è che laddove ci si trovi davanti una tale devastazione, serve investire in progetti di riqualificazione e di ripristino ambientale. Senza questi interventi, estate dopo estate, ci troveremo a perdere pezzi del nostro territorio, della nostra biodiversità. Inermi.

Non basta sapere che Legambiente Palermo è, giustamente, sul piede di guerra e annuncia che non toglierà «gli occhi di dosso a chi deve lavorare per la tutela del patrimonio naturalistico della nostra regione, che supporteremo le comunità colpite a denunciare, che Lo Zingaro e tutte le aree naturali bruciate questa notte le faremo rinascere insieme». Serve lo Stato: la tutela ambientale non è un lusso. Non è una voce da mettere o no in agenda, a seconda delle proprie inclinazioni politiche. È una delle necessità fondamentali, un bene comune inestimabile da tutelare. Tanto più in un paese fragile come l’Italia, in cui il rischio sismico si somma a quello idrogeologico.

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