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Una manifestazione contro la violenza sulle donne. Foto: Tania/A3/Contrasto
Circa una donna su tre al mondo ha subito violenza fisica e/o sessuale da parte del partner o di altra persona nel corso della propria vita. L’Organizzazione mondiale della Sanità considera la violenza di genere un grave problema di salute pubblica e una violazione dei diritti umani delle donne. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite colloca la parità di genere tra i suoi obiettivi e, tra le varie azioni, l’eliminazione di tutte le forme di violenza contro donne e ragazze nella sfera pubblica e privata, compresa la tratta e lo sfruttamento sessuale e di altro tipo.
Si tratta di un fenomeno grave e complesso, che va considerato nella sua dimensione sociale, giuridica, sanitaria, politica, storica. Negli ultimi decenni un numero sempre maggiore di ambiti disciplinari ha iniziato a indagare la violenza contro le donne, con progressi sostanziali nella metodologia di ricerca. Ciò tuttavia non basta, ma serve una maggiore collaborazione e integrazione tra i vari campi del sapere. Serve ricerca transdisciplinare, per avere una visione ampia, completa e rigorosa del problema. Questa, in estrema sintesi, la riflessione di un gruppo di studiose in un articolo pubblicato recentemente su Pnas (Violence against women and girls research: Leveraging gains across disciplines).
Le cinque ricercatrici che firmano il paper provengono da diversi campi del sapere: Kathryn Falb e Lindsay Stark sono professoresse di epidemiologia sociale, rispettivamente alla Johns Hopkins University e alla Washington University in St. Louis; Amber Peterman, Ragnhild Nordås e Roni Porat insegnano scienze politiche nell’ordine alla University of North Carolina at Chapel Hill, alla University of Michigan e alla Hebrew University; Anjalie Field è docente di informatica alla Johns Hopkins Whiting School of Engineering.
“Le discipline lavorano spesso in parallelo – spiegano –, senza condividere o chiarire i punti di forza e di debolezza delle diverse fonti di dati. Inoltre, non esistono definizioni comuni di molte forme di violenza di genere, strategie condivise per ridurre la sottostima dei dati o un'adesione coerente ai principi etici. Le metodologie di lavoro, i meccanismi di finanziamento e le strutture degli incentivi sono specifici per ogni disciplina e questo ostacola una significativa collaborazione che possa far progredire la conoscenza transdisciplinare e l'applicazione di metodi innovativi. Questa mancanza di coesione può potenzialmente portare a conclusioni contraddittorie e all'incompatibilità dei risultati della ricerca, limitando i progressi verso gli obiettivi generali di porre fine alle violenze di genere”.
Le autrici forniscono dunque quattro raccomandazioni chiave, che discutiamo di seguito, per espandere l’approccio transdisciplinare nello studio della violenza di genere. Riteniamo utile ricordare che il termine non indica solo una giustapposizione di conoscenze (multidisciplinarietà) o il dialogo tra settori differenti (interdisciplinarità), ma la capacità di trascendere i confini disciplinari per avere una visione più ampia possibile del problema da affrontare o del tema da indagare. E ciò per rispondere alla complessità del reale.
Migliorare la qualità e la quantità dei dati
Una questione fondamentale in ambito scientifico è la scelta delle fonti. Quando si tratta di violenza di genere, le fonti a cui attingere possono variare notevolmente a seconda dell’ambito disciplinare, ognuno dei quali offre vantaggi e svantaggi. Nel campo della sanità pubblica, per esempio, ci si affida a indagini epidemiologiche per raccogliere dati sulla prevalenza della violenza e sui suoi impatti sulla salute fisica e mentale. Psicologi e psicologhe raccolgono informazioni relative a fattori comportamentali e attitudinali, utilizzando osservazioni dirette o valutazioni cliniche. Si tratta di dati primari, in questi casi, poiché provengono da interviste dirette con le vittime, includono resoconti qualitativi e quantitativi degli abusi, e possono comprendere anche la raccolta di biomarcatori.
Al contrario, discipline come la criminologia, le scienze politiche, la sociologia tendono a utilizzare dati secondari, come quelli provenienti da rapporti di polizia, atti giudiziari, registri ospedalieri. Oggi il progresso nel campo delle nuove tecnologie consente inoltre di ottenere informazioni in modi nuovi. Le scienze informatiche permettono di analizzare ambienti virtuali come i social media, i forum online o altre impronte digitali, individuando potenziali inclinazioni alla violenza.
Tutti gli approcci considerati sono utili ma, secondo le autrici dell’articolo, nessuno di questi da solo è sufficiente per comprendere appieno il fenomeno. I dati primari spesso richiedono tempo e risorse aggiuntivi per essere raccolti, i dati secondari invece possono essere distorti in vario modo. L’adozione di un metodo di ricerca transdisciplinare invece, che combina dati da diverse discipline, potrebbe contribuire a migliorare il rigore della ricerca, la comprensione e l’impatto sulle vittime di violenza.
Rendere più accurati definizioni e risultati
Nel settore della ricerca sulla violenza di genere sono particolarmente ostiche la costruzione di definizioni puntuali e condivise e l’individuazione di tecniche comuni di codifica dei risultati quantitativi. Ciò è dovuto al fatto che ogni esperienza ha caratteristiche distintive: la vittima può essere adulta o minorenne; chi compie la violenza può essere il partner, un altro familiare o un caregiver; la violenza può essere di tipo sessuale, fisico o psicologico e può avvenire nei luoghi più disparati, dalla casa, alla scuola, al lavoro. “Queste variabili – sottolineano le docenti – influenzano le tecniche di misurazione e limitano la comparabilità dei risultati associati”. In caso di violenza da parte del partner (Intimate partner violence), per esempio, sono ampiamente utilizzati metodi che si fondano su risposte binarie (sì/no), le quali tuttavia rischiano di semplificare eccessivamente questioni complesse e di non cogliere l’intero spettro dell’esperienza vissuta dalle vittime. Gli economisti tendono a servirsi di metodologie che rappresentano numero, frequenza o severità degli atti. Gli psicologi eseguono valutazioni psicometriche.
Ebbene, secondo le autrici il dialogo tra i vari settori disciplinari ha la capacità di aumentare la precisione dei risultati quantitativi. È importante infatti non solo rilevare “se” la violenza da parte del partner ha avuto luogo (si o no?), ma anche studiare il tipo di violenza, la gravità e altre dinamiche di questo tipo, esaminando le variabili nel tempo. Dalla collaborazione transdisciplinare potrebbe trarre particolare beneficio, per esempio, l’analisi di forme di violenza ancora poco studiate o facilitate dalla tecnologia, come la violenza online o le molestie sessuali contro donne e ragazze in diversi spazi e ruoli, come sul luogo di lavoro o in posizioni di leadership.
Creare strategie condivise per ridurre la sottostima dei dati
Raccogliere dati accurati sulla prevalenza della violenza di genere rimane una sfida enorme, specie perché la maggior parte delle informazioni disponibili si basa su stime che non riflettono appieno la realtà del fenomeno. Le vittime tendono a non denunciare gli abusi per paura di ritorsioni o di essere giudicate, perciò è ampiamente riconosciuto che la conoscenza del fenomeno che si possiede oggi è solo la “punta dell’iceberg”. Il settore della criminologia, per esempio, si affida a dati ufficiali provenienti dalle forze dell’ordine o dai registri dei tribunali, ma si stima che solo il 7% delle vittime denunci i fatti alle autorità nei Paesi a basso e medio reddito.
Per ridurre la sottostima dei dati, le ricercatrici ritengono necessario adottare metodi di indagine che rispettino e proteggano le vittime, offrendo loro l’opportunità di condividere le proprie storie senza timori. Diverse discipline hanno cercato di affrontare il problema, aumentando innanzitutto la privacy durante la raccolta delle informazioni. L’impiego di tecniche come le autointerviste assistite da computer (Acasi - Audio computer-assisted self-interviews), che garantiscono a chi partecipa di rispondere in modo anonimo, ha dimostrato di aumentare il numero di donne che rivela la violenza, specie tra le più giovani. Attingendo ai progressi nel campo della psicologia sociale, sono stati sperimentati metodi di raccolta dati come i test di associazione implicita per misurare le attitudini verso le molestie sessuali. Le scienze informatiche, come si è visto, stanno emergendo come strumento per identificare automaticamente dati correlati a potenziali episodi di violenza, esaminando fonti come i social network o le cartelle cliniche. Ci limitiamo a questi, ma gli esempi riportati dalle ricercatrici sono molti altri.
Secondo le docenti, un approccio che si avvalga delle potenzialità trasversali alle diverse discipline potrebbe contribuire a migliorare le stime di prevalenza della violenza di genere, rendendole più attendibili. Tanto più che su questi dati, a cascata, si basano ulteriori ricerche scientifiche e decisioni politiche. Gli esempi promettenti non mancano: informatica e medicina, per citarne uno, hanno già iniziato a muoversi su un terreno comune, per migliorare l’analisi di grandi quantità di dati come le immagini forensi di lesioni intenzionali.
Promuovere l’etica e l’equità nella ricerca
La ricerca sulla violenza di genere infine non può prescindere da un approccio etico ed equo che metta al centro le necessità delle donne e delle ragazze coinvolte. Non si tratta solo di raccogliere dati, ma di farlo in modo che la parte lesa sia trattata con rispetto e dignità. Qualsiasi sia l’ambito disciplinare, la ricerca dovrà essere strutturata in modo tale da rispondere ai bisogni delle vittime, creando percorsi di cura e di supporto che vadano oltre la semplice raccolta di informazioni. Dovranno essere reclutate, per esempio, intervistatrici esperte ed empatiche che garantiscano privacy, riservatezza delle risposte e assenza di giudizio. Solo un approccio che riconosca e rispetti l’esperienza delle donne può garantire che i dati raccolti siano veramente rappresentativi e utili a promuovere cambiamenti concreti nelle politiche e nei servizi di supporto.
Proposte operative
Le autrici dell’articolo pubblicato su Pnas concludono la loro riflessione avanzando alcune proposte. Sottolineano innanzitutto che potrebbe essere istituita una commissione globale per la ricerca transdisciplinare allo scopo di rivedere le metodologie di indagine sulla violenza di genere e per definire programmi di ricerca che promuovano la collaborazione tra ambiti disciplinari differenti. Un approccio simile, per esempio, è già stato adottato per affrontare emergenze come la salute planetaria.
Ancora, le istituzioni accademiche e le grandi organizzazioni di ricerca potrebbero incentivare programmi di dottorato a carattere transdisciplinare per promuovere ricerca e formazione di frontiera, e finanziare progetti congiunti che coinvolgano esperti di vari settori che si occupano di violenza di genere, dalla salute pubblica, alle scienze politiche, alle scienze informatiche.
Secondo le studiose le decisioni relative alla carriera potrebbero considerare non solo le pubblicazioni sulle principali riviste di settore, ma anche i lavori che raggiungono un pubblico più ampio ed eterogeneo, collegando in questo modo ambiti del sapere differenti. Oltre ai risultati accademici tradizionali, poi, dovrebbe essere considerato prioritario anche l’impegno con le vittime e il sostegno alle organizzazioni del settore. E anche i donatori dovrebbero tener conto, nei meccanismi di finanziamento, dell’importanza della transdisciplinarità.
“In definitiva – concludono – gli sforzi per sfruttare i punti di forza di ogni ambito disciplinare creeranno dati più etici, precisi e completi sulla violenza sulle donne e le ragazze. Questi dati, a loro volta, possono essere utilizzati per responsabilizzare i governi e altri attori e contribuire a delineare percorsi di azione e intervento basati sui dati”.