CULTURA

I robot e lo sviluppo sociale, secondo Gianni Rodari

Chissà se il giornalista e scrittore Gianni Rodari vi ha fatto mente locale. Ma proprio nell’anno in cui lui nasceva, a Omegna, nel 1920, cento anni fa, un altro giornalista e scrittore, Karel Čapek, nato a Malé Svatoňovice nella Repubblica Ceca, pubblicava un’opera non solo destinata a diventare famosa, ma ancora oggi – anzi, oggi più che mai, attuale: R.U.R (Rossum's Universal Robots). Sì, per la prima volta in quel dramma di Čapek, appare la parola robot. Derivazione di robota, che in lingua ceca significa lavoro duro, pesante, forzato.

In quel dramma, andato in scena solo il 25 gennaio 1921, Karel Čapek narra di un gran filosofo, il vecchio Rossum, che vuole ricostruire l’uomo, tal quale. Impiega dieci anni, usa materiale biologico e infine ci riesce. L’uomo, ricopiato tal quale dal vecchio, Rossum, vive però appena tre giorni. 

Giunge infine sulla scena il giovane Rossum, un geniale ingegnere. E chiede al vecchio zio: a che serve un uomo tal quale ricostruito in dieci anni, quando la natura ci riesce in nove mesi? A noi non serve l’uomo. A noi serve qualcuno, da costruire in tempi rapidi e a basso costo, che svolge le funzioni indesiderabili al posto dell’uomo. Uno schiavo che libera definitivamente l’uomo dalla fatica. 

Ma lasciamo la parola a Karel Čapek: «Il giovane Rossum inventò l'operaio con il minor numero di bisogni. Dovette semplificarlo. Eliminò tutto quello che non serviva direttamente al lavoro. Insomma, eliminò l'uomo e fabbricò il Robot».

La parola robot, dunque, nasce nel 1920 per indicare una macchina che, come un nuovo schiavo, compie i lavori più duri e pesanti al posto dell’uomo.

Il dramma del giornalista e scrittore ceco è più che mai attuale, perché ormai i robot sono tra noi. E già qualcuno immagina, non del tutto senza fondamento, che i robot non si stanno limitando a toglierci la fatica, ma ci stanno togliendo il lavoro tout court. Lasciandoci in strada, tutti disoccupati. A causa di un insensato modello di sviluppo che mira più ad accumulare quattrini che a creare benessere per le persone.

Ebbene, è proprio il caso di celebrare insieme la nascita, cento anni fa, del robot a opera di Karel Čapek e la nascita di Gianni Rodari, a opera dei suoi genitori. Anche perché - e come poteva essere altrimenti – Gianni Rodari nelle sue opere ha parlato sia dei robot che del modello di sviluppo.

Da L’esplorazione del rio Rubens, in Il giudice a dondolo:

         Nel 2457 un gruppo di robot al servizio della Società storico-geografica effettuò una completa esplorazione dei territori del rio Rubens. Gli automi, particolarmente addestrati per i viaggi pericolosi e le rilevazioni scientifiche, portarono a termine l’impresa – per la prima volta nella storia – senza l’assistenza dell’uomo: persino il cappellano che accompagnava i pochi robot bisognosi di sollecitazioni di tipo religioso (sette su venticinque) era un «cappellano automatico», una macchina perfetta, capace di recitare circa trentamila sermoni su altrettanti soggetti e di svolgere un numero assai superiore di conversazioni e dispute su argomenti come la psicotecnica, la speleologia, l’astrobotanica, la balistica, la cabalistica e l’enigmistica.

Da Un robot può sferruzzare?, un capitolo de Il pianeta degli alberi di Natale.

         Marco si voltò di scatto. Un robot avvolto in una vestaglia gialla lo guardava sorridendo con occhi fosforescenti, mentre con le mani faceva qualcosa  che Marco, se si fosse trattato di una nonna invece che di un robot, avrebbe definito col verbo «sferruzzare».

            - Un passamontagna isolante, - spiegò bonariamente il robot che aveva notato la direzione degli sguardi di Marco. – Così se ci saranno nuove incursioni non sentirò il fracasso. Ma spero che non ce ne siano altre.

            - E allora, perché ti fai quella roba?

            - Non posso stare senza far niente. Sono un robot domestico e questa casa mi dà pochissimo lavoro. E poi mi piace fare la maglia. 

Sul pianeta degli alberi di Natale c’è una società anarchica, in cui tutto il lavoro è fatto da robot e macchine. Questo è uno dei temi importanti del rapporto tra scienza e tecnologia che ci propone Rodari.

I suoi robot sono simpatici. Prendete le frigoscarpe, per esempio. Da Le scarpe del conte Giulio in: il Gioco dei quattro cantoni.

- Queste scarpe, sì, Giulio, possono fare a meno del frigorifero o della borsa del freddo. Se ne infischiano proprio. Non si surriscaldano mai. Basta ricordarsi di rinnovare ogni tanto la pila. Sì, Giulio. Queste sono frigoscarpe, ossia scarpe col frigo incorporato.

Inventate dalle amiche della signora Giuditta con le giuste competenze, dice Rodari, tecno-scientifiche.

Scarpe dell’era dello spazio.

- Vedi? Qui nel tacco si apre uno sportellino. È qui che s’infilano le pile. Miniaturizzate, naturalmente. Siamo sempre nel fall down della tecnica spaziale. Noi e i satelliti artificiali siamo così. Da Gagarin a noi non c’è che un passo. Un passo da frigoscarpe. 

Ma dicevano del modello di sviluppo, non propriamente sensato. Da Le scarpe del conte Giulio in: il Gioco dei quattro cantoni.

- Alt, - disse la signora Giuditta, senza nemmeno aggiungere un «Sì, Giulio» di rispetto. – La frigoscarpa è un prodotto brevettato dalla COCARO (Cooperativa casalinghe di Rovigo). Per ordinazioni e acquisti rivolgersi alla nostra rappresentante Carlotta Bigodini. Sconti alle aziende di Stato, alle forze dell’ordine e alle Figlie di Maria.

- Perché anche a loro?

- Perché vanno spesso in processione e perciò hanno dei problemi con i piedi. Dimenticavo: condizioni speciali ai pensionati, che tutti i mesi debbono trascorrere lunghe ore in fila, in piedi, alla posta. 

- Insomma …

- Non ho finito, - aggiunse la signora Giuditta. – Stiamo trattando con un’impresa americana che vuole l’esclusiva per la NATO e una ditta giapponese che la vuole per tutta la Via Lattea.

Il conte Giulio cadde a sedere. In quel vasto turbine di novità di ambo i sessi e di tutti i continenti, egli sospettava la presenza di un modello di sviluppo nel quale il suo primato familiare appariva gravemente compromesso.

«Ho capito, - egli stava cominciando a pensare tra sé, sotto la calvizie nobilmente percorsa dal ghirigoro del riporto, - ormai bisognerà che impari a lucidarmi le scarpe da solo».

Già, troppo spesso nel nostro modello di sviluppo noi, le nostre famiglie, gli umani vengono sacrificati. Ed è così che i robot nati per liberarci dalla fatica finiscono per rubarci il lavoro.

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