SCIENZA E RICERCA

Nuova luce sulla colonizzazione umana delle isole Canarie

Le isole Canarie, situate al largo della costa occidentale del Marocco, sono abitate fin dall’antichità. Le tracce archeologiche e paleontologiche, abbondanti nelle isole dell’arcipelago, dicono molto della civiltà autoctona di quei luoghi, riscoperti dagli esploratori europei alla fine del quattordicesimo secolo.

Eppure, c’è almeno un punto della storia della colonizzazione umana delle Canarie che è rimasto, fino ad ora, misterioso: quali popoli, e quando, si siano per primi stabiliti sull’isola, dando avvio a una popolazione che, per via di un lungo isolamento, ha sviluppato tratti culturali unici.

Uno studio pubblicato su PNAS a inizio estate e guidato da ricercatori dell’Università di Las Palmas, Gran Canaria (ULPGC) contribuisce a far luce su questo aspetto poco chiaro della storia umana sull’arcipelago.

I ricercatori, guidati dallo storico Jonathan Santana, professore all’ULPGC, hanno proposto una ricostruzione alternativa alla vulgata oggi più diffusa. È ormai universalmente condivisa l’idea che i primi abitanti delle Canarie (noti, in lingua spagnola, come Guanches), abbiano un’origine nordafricana; l’ipotesi più accreditata dalle ricerche archeologiche condotte a partire dall’Ottocento era che queste popolazioni, di cui non si conoscono manufatti che facciano pensare a una dimestichezza con la navigazione, fossero stati trasportati nell’arcipelago da un’altra popolazione mediterranea (forse i Fenici, i Cartaginesi o i Romani). Questa ipotesi, supportata anche dal fatto che non ci sono evidenze archeologiche di scambi commerciali o contatti con la costa nordafricana, influisce sulla datazione della prima colonizzazione dell’isola.

Gli autori dello studio pubblicato su PNAS hanno rianalizzato la datazione al radiocarbonio dei reperti disponibili sulle isole che la ricerca archeologica ha identificato come indicativi di presenza umana e, per eliminare i bias esistenti hanno applicato un approccio di “igiene cronometrico”, che prevede l’eliminazione dall’analisi dei reperti considerati problematici.

Le Canarie: scoperte dai Romani

In base ai reperti archeologici presenti, solo una delle due datazioni finora considerate più plausibili dalla comunità scientifica è apparsa più supportata dai dati: l’ipotesi è che a scoprire e sfruttare per primi le isole siano stati non i Fenici o i Cartaginesi intorno al VII-VI secolo a.C. (infatti, su nessuna delle isole sono stati ritrovati reperti archeologici che suggeriscano il passaggio di queste popolazioni), ma i Romani intorno al I secolo a.C. I resti archeologici trovati a Lobos (un isolotto vicino alla costa nord di Fuerteventura) confermano il passaggio dei Romani e lo sfruttamento, da parte loro, delle risorse ittiche della zona. La testimonianza di Plinio il Vecchio sulla scoperta dell’arcipelago è interessante, poiché non riporta della presenza di popolazioni umane sulle isole.

Si è creduto a lungo che l’arrivo dei Berberi dal nord Africa sia stato mediato proprio dai Romani: questi avrebbero trasportato (o deportato) alcune popolazioni occidentali nordafricane su quelle isole, e queste, rimaste isolate poiché – si è ipotizzato – non in grado di navigare, sarebbero divenute nel tempo la popolazione indigena delle Canarie.

I risultati dell’analisi condotta ex novo dai ricercatori canari e spagnoli sono molto interessanti. Innanzitutto, confermano che la prima presenza umana nell’arcipelago è quella dei Romani a Lobos, avvenuta tra il 315 e il 15 a.C, e che rappresenta il punto più a Occidente dove la popolazione si sia mai spinta nel corso della sua storia. Tuttavia, i Romani non colonizzarono le isole: la presenza umana diventa continuativa – e quindi si può davvero parlare di colonizzazione – solo a partire da un periodo compreso tra il I e il IV secolo d.C. I protagonisti di questa colonizzazione propriamente detta sono i Berberi.

Queste popolazioni, nel tempo divenute autoctone, hanno saputo abitare le isole ininterrottamente per più di mille anni, prima e dopo l’arrivo degli Europei. Si ritiene che un aspetto importante di questo successo demografico sia dovuto al “kit di salvataggio” che i colonizzatori portarono con sé: piante e animali domestici, cioè lo stile di vita delle società agricole.

Le evidenze più antiche della colonizzazione umana dell’arcipelago riguardano Lanzarote, l’isola più a est (ma non la più vicina alla costa atlantica africana, che è invece Fuerteventura) e risalgono a un periodo tra il 70 e il 240 d.C. La rotta probabilmente seguita dai colonizzatori si sviluppa su un asse nord-est – sud-ovest, come confermano le datazioni dei resti di orzo coltivato, più antico a Lanzarote che nelle isole più occidentali, e che con ogni verosimiglianza ha ‘seguito’ il percorso degli agricoltori umani in espansione.

Grazie alle analisi bayesiane (una specifica metodologia d’indagine statistica) condotte sulle datazioni al radiocarbonio dei reperti disponibili, i ricercatori spagnoli hanno potuto confutare l’ipotesi secondo cui questa colonizzazione sia stata mediata dai Romani: infatti, l’esito delle analisi esclude una sovrapposizione tra il periodo in cui i Romani frequentarono Lobos e il primo sbarco dei Berberi a Lanzarote. «Al di là delle evidenze di Lobos, non ci sono prove inequivocabili della presenza dei Romani o di un avvenuto scambio culturale tra questi e i Berberi su nessuna delle isole. L’assenza di artefatti romani, soprattutto nei siti archeologici più antichi, dove i tratti culturali dei ritrovamenti si allineano in modo più evidente con le tradizioni berbere o nordafricane, è particolarmente eloquente. Per di più, è assente qualsiasi traccia di cultura berbera nel sito romano di Lobos», scrivono gli autori nella ricerca.

Perché colonizzare una nuova terra?

Al di là della risoluzione del dilemma storico, l’esito di questo studio risulta interessante per un altro motivo: offre un caso esemplare di come la colonizzazione di nuove terre da parte degli esseri umani non sia sempre un processo lineare. Il fatto che i Romani abbiano deciso di non stabilirsi sull’isola, mentre i Berberi abbiano deciso il contrario relativamente poco tempo dopo, suggerisce che a determinare questa scelta abbiano concorso diversi fattori: «La dimensione di un territorio, la sua vicinanza ad altre terre emerse, i vincoli ecologici, i vantaggi dell’abitare, così come la posizione del territorio rispetto alle rotte marittime e commerciali di riferimento hanno plasmato i pattern degli insediamenti umani su queste isole».

La trasformazione delle Canarie

Eppure, una terra può essere trasformata anche se gli umani non vi abitano stabilmente: incrociando diversi dati, i ricercatori hanno concluso che le prime perturbazioni degli ecosistemi dell’arcipelago siano state iniziate dai Romani, portando a estinzioni locali di specie, introduzione (intenzionale o accidentale) di specie aliene e modificazione degli ecosistemi. La vera e propria alterazione ambientale delle isole, tuttavia, si verificò con l’arrivo dei Berberi, il cui più grande impatto fu l’esportazione delle pratiche agricole e di allevamento, con la conseguente introduzione di molte specie domestiche (soprattutto capre, pecore, maiali, orzo, grano duro, lenticchie, piselli, fave e fichi) che cambiarono per sempre il paesaggio delle isole Canarie.

Ma fu proprio questo “pacchetto” di conoscenze a rendere possibile una colonizzazione di successo: una società di cacciatori-raccoglitori non avrebbe potuto sopravvivere a lungo nell’ambiente povero di risorse di un’isola oceanica. I primi agricoltori delle Canarie, tuttavia, devono il loro successo anche al mare: i ricercatori hanno mostrato anche che i primi insediamenti furono stabiliti proprio sulle coste, cosicché i prodotti del mare potessero contribuire al sostentamento di quelle prime popolazioni.

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