SOCIETÀ

La ricetta di Mario Draghi per decarbonizzare l’Europa

Dopo l’esito delle elezioni europee dello scorso giugno, in molti si sono chiesti se le politiche climatiche che l’Unione Europea ha intrapreso nella precedente legislatura verranno ora rafforzate o indebolite, alla luce della nuova formazione del Parlamento Europeo.

Il rapporto sul futuro della competitività europea presentato da Mario Draghi a pochi giorni dalla nuova lista di commissari europei, dà una netta indicazione a riguardo, visto che tra le tre priorità di intervento, oltre all’innovazione e alla sicurezza, c’è proprio la decarbonizzazione.

Ursula von der Leyen, che guiderà la Commissione per altri 5 anni, ha promesso che entro 100 giorni dall’insediamento della nuova squadra presenterà il New Clean Industrial Deal, il nuovo piano per un’industria europea sostenibile, basandosi proprio sulle indicazioni contenute nel rapporto di Draghi.

Nonostante le picconate che gli sono state assestate da destra sul finire della scorsa legislatura, l’intenzione della nuova Commissione sembra essere quella di portare avanti i progressi del Green Deal. Lungi però da aver vita facile, nella nuova composizione parlamentare i pacchetti legislativi per il clima dovranno venir negoziati volta per volta, perché all’interno della cosiddetta maggioranza Ursula (che comprende Popolari, Liberali, Socialisti e Verdi) alcune compagini si sono fatte più ricettive nei confronti delle istanze anti-ambientaliste che provengono dall’ala destra dell’Aula.

Che alternative alla decarbonizzazione però non ce ne siano lo mette nero su bianco anche il rapporto di Draghi. Sul fronte dell’innovazione infatti, specialmente in ambito di transizione digitale, tecnologie dell’informazione e Intelligenza Artificiale, l’Europa è troppo distante dagli Stati Uniti per impensierirne la leadership: “solo 4 delle migliori 50 compagnie tecnologiche mondiali sono europee” ricorda l’ex direttore della Banca Centrale Europea.

Analogamente, nonostante la minaccia bellica abbia varcato i confini geografici europei con la guerra in Ucraina, l’Europa non può pensare di imbarcarsi in una sorta di economia di guerra per risollevare la propria produttività. Sarebbe incompatibile con quei valori che rivendica come fondanti: oltre all’eguaglianza, alla libertà e alla democrazia, c’è la pace.

Secondo Draghi dunque, su questi due fronti, innovazione e sicurezza, l’Europa dovrà lavorare, e molto, per colmare la distanza dai blocchi economicamente concorrenti (Stati Uniti e Cina), mentre potrà e dovrà fare da esempio e da traino in quell’ambito dove già occupa già una posizione di leadership: le ambizioni di sostenibilità della propria economia. La decarbonizzazione sarà la cornice entro la quale l’Unione Europea dovrà riguadagnare competitività.

In termini di politiche climatiche, l’Europa è l’unica area al mondo ad aver posto un prezzo (crescente nel tempo) alle emissioni, con il sistema ETS (Emission Trading System). I suoi obiettivi, legalmente vincolanti, sono i più ambiziosi al mondo: ridurre del 55% le proprie emissioni entro il 2030 e raggiungere la neutralità a metà secolo.

Guardando alle energie pulite l’Europa è forte anche sul piano dell’innovazione: è una potenza industriale per la produzione di turbine eoliche (anche qui tuttavia non sono mancate le difficoltà negli ultimi anni) e detiene il 60% dei brevetti per i carburanti a basse emissioni, si legge nel rapporto, che sono fondamentali per rendere più sostenibile soprattutto il settore dei trasporti pesanti (aviazione e marittimi).

Anche sul fronte dell’intensità carbonica i risultati già ottenuti sono i migliori al mondo. Certamente è molto di più quello che resta da fare rispetto a quello che abbiamo fatto, ma va ricordato che rispetto al 1990 le emissioni europee oggi sono calate di circa un terzo, mentre il Pil del continente è cresciuto di circa due terzi. Nessun altra area economica ha fatto meglio. “La decarbonizzazione offre l’opportunità all’Europa di abbassare i prezzi dell’energia e prendere la leadership nelle tecnologie pulite, diventando al contempo energeticamente sicura” si legge nel rapporto.

Cina e altri Paesi

Fin qui le buone notizie. Tra gli obiettivi che si è posta, entro fine decennio l’Europa deve passare dal 22% attuale al 42,5% di consumo di energia da fonti rinnovabili: significa triplicare le installazioni di fotovoltaico e raddoppiare quelle di eolico in poco più di 5 anni. Ricorrere alle importazioni di fotovoltaico dalla Cina, leader incontrastata in questo segmento di transizione, al momento rappresenta la via più veloce per raggiungere quest’obiettivo. Lo stesso vale, nel breve e medio termine, per i veicoli elettrici e le batterie.

Tuttavia, un eccessivo affidamento alle importazioni cinesi farebbe crollare la produzione europea, che invece dovrebbe iniziare una crescita decisa in questi settori, su cui non ha investito per tempo e su cui ora si trova in ritardo. La creazione di quei nuovi green jobs promessi dalla transizione ecologica sarebbe messa a repentaglio.

Sebbene quindi sia da escludere un approccio come quello statunitense che sta sempre più chiudendo le porte alla Cina, l’Europa non deve nemmeno spalancarle troppo. Deve piuttosto trovare un giusto quanto difficile equilibrio tra produzione domestica e importazioni.

Draghi ribadisce che l’Europa deve anche rafforzare i legami con quei Paesi che forniscono le materie prime critiche di cui il Vecchio Continente scarseggia. Lo sviluppo di questi Paesi, allo stesso tempo, offrirebbe opportunità di mercato e di investimenti per far crescere proprio le tecnologie pulite europee, sostiene Draghi.

Le regole del mercato elettrico

Non c’è dubbio quindi che le clean tech e le fonti a basse emissioni devono crescere in Europa. Gli ostacoli però non mancano. Oltre ai noti problemi di tempistiche nel rilascio dei permessi per l’installazione di nuovi impianti rinnovabili, un altro nodo da sciogliere per la sostenibilità del sistema energetico riguarda la struttura stessa del mercato elettrico. “Anche se l’Europa riducesse la propria dipendenza dal gas naturale e aumentasse l’investimento nella generazione di energia pulita, le sue regole di mercato nel settore elettrico non disaccoppierebbero completamente i prezzi delle rinnovabili e del nucleare da quelli più alti e più volatili dei combustibili fossili, impedendo agli utilizzatori finali di cogliere a pieno i benefici dell’energia pulita nelle loro bollette”. Senza entrare nei tecnicismi del funzionamento del mercato, la ragione è presto spiegata da un dato: nonostante il gas oggi rappresenti solo il 20% del mix elettrico europeo, nel 2022 in piena crisi energetica il prezzo dell’energia elettrica dipendeva in quasi i due terzi dei casi (63%) da questa fonte fossile.

Combustibili fossili

Nonostante queste problematiche, e nonostante sia previsto che calerà ulteriormente la propria dipendenza da gas, questo combustibile secondo Draghi continuerà a ricoprire un ruolo importante nel medio termine: sia quello trasportato via tubi, sia quello liquefatto trasportato via mare. Limitarne la volatilità dei prezzi sarà pertanto cruciale.

Il nuovo mercato elettrico ad esempio dovrà fare più affidamento sui contratti PPA (Power Purchase Agreement), che tengono fisso il costo dell’energia anche per due decenni, facendo leva sul fatto che l’elettricità prodotta da fonti a basse emissioni ha costi che oscillano poco.

Nel mix energetico-tecnologico tracciato da Draghi trovano un posto rilevante anche le bioenergie, l’idrogeno e la CCS (cattura e stoccaggio della CO2), soluzioni tipicamente difese dall’industria dei combustibili fossili.

Industria pesante e autmotive sostenute dalle risorse ETS

Il settore che più di altri sta soffrendo la decarbonizzazione è quello cosiddetto hard-to-abate, le cui emissioni sono difficili da abbassare: si tratta di industrie come quelle dell’acciaio (ne sa qualcosa l’ex Ilva di Taranto), del cemento, dell’alluminio e della carta. Rispetto a quella statunitense e ancor più a quella cinese, l’industria pesante europea non è sussidiata a sufficienza, secondo Draghi. Le risorse raccolte dall’ETS infatti vengono primariamente destinate a efficientare gli edifici, a sviluppare energia rinnovabile e a contenere i costi in bolletta dei consumatori: “il rapporto raccomanda di destinare una quota maggiore dei ricavi ETS alle industrie energivore” propone Draghi, sussidiando con tali risorse lo sviluppo dell’idrogeno verde e delle tecnologie di cattura del carbonio (CCS) che servirebbero a decarbonizzarle.

Anche l’industria automobilistica, su cui l’Europa ha incentrato una buona parte della propria economia negli ultimi decenni, oggi è in crisi per i ritardi accumulati nel passaggio alla mobilità elettrica e, secondo Draghi, per lo scarso coordinamento tra politiche climatiche e politiche industriali. Come abbiamo visto, la ripresa del settore deve passare per un faticoso equilibrismo tra importazioni cinesi e sviluppo produttivo continentale, ma secondo Draghi anche la transizione dell’automotive andrebbe finanziata dalle risorse dell’ETS.

“Nel breve termine, il principale obiettivo del settore dovrebbe essere quello di evitare radicali delocalizzazioni della produzione lontano dalla UE o un rapido rilevamento delle industrie e delle aziende europee da parte di produttori stranieri sussidiati dallo stato. Nel frattempo occorre continuare la decarbonizzazione” si legge nel testo. “Guardando più avanti, il rapporto raccomanda all’UE di sviluppare una roadmap industriale che ponga attenzione alla convergenza orizzontale (elettrificazione, digitalizzazione e circolarità) e a quella verticale (materiali critici, batterie, trasporti, infrastrutture) delle catene di valore dell’ecosistema dell’automotive”. E aggiunge, utilizzando un termine caro a chi ha osteggiato la decarbonizzazione dei trasporti: “l’UE dovrebbe seguire un approccio tecnologicamente neutrale nel definire il percorso della riduzione della CO2 e degli inquinanti”.

Parafrasato in poche parole, per lo meno sul settore dell’auto, il Draghi-pensiero sembra voler dire: va bene la decarbonizzazione, ma non a tutti i costi: bisogna difendere la capacità industriale europea, anche se non è al passo con i tempi. Questo però si traduce necessariamente nel ritardare una riduzione delle emissioni del settore che è già fuori tempo massimo.


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La rete elettrica europea

Nonostante Draghi si pronunci “tecnologicamente neutrale” nei confronti della transizione nel settore dei trasporti, l’elettrificazione dei consumi (e quindi anche quella dei trasporti) non sembra affatto essere oggetto di ripensamenti. “Se c’è una dimensione orizzontale nel settore energetico la cui importanza non può essere sottostimata è quella della rete elettrica”. Nei prossimi anni e decenni la domanda di energia elettrica crescerà in tutto il Vecchio Continente, così come nel resto del mondo, andando a sostituire, per quanto possibile, quella di combustibili fossili. L’infrastruttura della rete elettrica europea avrà bisogno di ingenti investimenti e ampliamenti.

Per superare le lungaggini burocratiche nel rilascio dei permessi, Draghi suggerisce di sviluppare una cornice legale comunitaria, come appartenesse a un ventottesimo Paese, per i progetti di interesse europeo (IPCEI – Important Projects of Common European Interest), che consenta di aggirare i blocchi imposti da comunità locali e nazionali. L’infrastruttura della rete elettrica pan-europea rientrerebbe tra questi.

La ricetta ecumenica di Draghi

In conclusione, la decarbonizzazione è e continua a essere il faro della strategia economica europea. Non è oggetto di discussione se farla o meno. Lo è invece come realizzarla. Draghi ha presentato la sua ricetta, che sembra voler accontentare un po’ tutti: avanti con le rinnovabili, ma sosteniamo anche l’industria energivora con le stesse risorse che sarebbero da destinare alle rinnovabili. Puntiamo sulla mobilità elettrica, ma per difendere il settore europeo dell’auto siamo disposti a ritardarne la riduzione delle emissioni. Sembra anche contraddittoria la difesa del gas naturale sul medio termine, quando le analisi dimostrano che il problema dei prezzi alti dell’energia elettrica, che affliggono le industrie e rischiano di rallentare la transizione, è causato proprio da un mercato che dipende troppo dal gas.

Draghi sembra voler sottolineare l’importanza di una transizione che non penalizzi le potenze industriali, mentre sono pochissimi i riferimenti espliciti alle disuguaglianze sociali che una non-transizione acuirebbe. Un esempio: in oltre 400 pagine, la povertà energetica è menzionata una volta sola.

Il rapporto sul futuro della competitività sarà la base del piano per un’industria sostenibile della nuova Commissione von der Leyen. Oltre a Draghi però, in fase di negoziazione diranno la propria i nuovi membri del Parlamento europeo, i capi di governo che compongono il Consiglio e i ministri dei Paesi membri. Questa legislatura ci porterà alle soglie del nuovo decennio, un momento cruciale in cui potremo misurare la distanza, o la vicinanza (si spera), che ci separa dal dimezzamento delle emissioni che abbiamo fissato come obiettivo.

Da ogni provvedimento preso in questo quinquennio dipenderà l’eredità che verrà lasciata a chi dovrà raggiungere la neutralità climatica nei due decenni successivi. A ben vedere, siamo solo all’inizio di una lunga salita.

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