Papa Francesco nel corso del viaggio in Iraq nel 2021
“Quante divisioni ha il Papa?”, avrebbe chiesto ironicamente Stalin a Jalta; “Ora potrà vedere quante ne abbiamo lassù” fu il commento di Pio XII quando apprese della morte del dittatore sovietico, avvenuta il 5 marzo 1953. Sia come sia, la Santa Sede non si è mai occupata esclusivamente di ‘lassù’ ma è sempre stata, tra le altre cose, un attore fondamentale sulla scena internazionale: “Almeno dal Medioevo, quando re e imperatori andavano a cercare una sorta di benedizione papale a Roma o ad Avignone proprio perché si riconosceva al pontefice un’autorità superiore e in qualche misura super partes”. A parlare è Matteo Matzuzzi, caporedattore del Foglio specializzato in Chiesa Cattolica e religioni; “Quando poi con la breccia di Porta Pia ebbe termine il potere temporale, all’inizio il Papa pensò che questo avrebbe segnato la fine della sua influenza – continua il giornalista –. In realtà fu una benedizione: da quel momento la Santa Sede poté davvero tornare a esercitare un'autorità spirituale riconosciuta quasi universalmente”.
Così il corpo diplomatico più antico del mondo (e un tempo uno dei più prestigiosi ed efficienti) è stato riconvertito soprattutto negli ultimi anni alla difesa della pace e dei diritti umani, oltre che degli obiettivi della Santa Sede. Una storia ripercorsa da Matzuzzi nel libro Il santo realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco, (Luiss University Press 2021), presentato a Padova nel corso di un incontro-lezione nell’ambito del corso di laurea magistrale in Politica internazionale e diplomazia: una sorta di ritorno a casa per il vaticanista, che nello stesso corso ha studiato e si è laureato, prima di entrare nel 2011 nella redazione del quotidiano romano.
Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Barbara Paknazar
Il libro affronta le vicende ultimi tre pontificati con la lente delle relazioni internazionali: dall’alleanza Reagan-Wojtyła, che contribuì all’implosione del blocco sovietico ma che dopo la caduta del muro lasciò il posto a un atteggiamento critico da parte della Santa Sede nei confronti dell’unica superpotenza rimasta, alla 'diplomazia della verità' portata avanti da Papa Ratzinger, diretta a promuovere i cosiddetti 'valori non negoziabili' e in particolare la libertà religiosa. Fino alla realpolitik di Bergoglio, “che dialoga con tutti, anche con i più lontani, disposto a rinunciare a qualcosa pur di trovare un'intesa. Persino quando sembrerebbe impossibile”, spiega Matzuzzi a Il Bo Live. Di qui ad esempio il Documento sulla Fratellanza umana, siglato a Abu Dhabi con il grande Imam di Al-Azhar tredici anni dopo il discorso di Benedetto XVI di Ratisbona, ma anche gli accordi con la Turchia e soprattutto con la Cina, nella quale da buon gesuita Bergoglio vede innanzitutto una terra di missione.
Un atteggiamento pragmatico che ha suscitato qualche polemica anche nella stessa Chiesa. Così l’accordo con il governo cinese del 2018, che ha comportato importanti concessioni sulla nomina dei vescovi, è stato criticato da figure importanti come il cardinale Joseph Zen, novantenne vescovo emerito di Hong Kong arrestato lo scorso anno dalla polizia cinese per “collusione con forze straniere”. Scelte dolorose e spesso laceranti, fatte anche nella prospettiva di aprire sempre più la Chiesa Cattolica al mondo, emancipandola da un Occidente percepito come in declino. È noto ad esempio l’atteggiamento critico di Bergoglio nei confronti della politica nordamericana: uno dei suoi mentori, il gesuita argentino Juan Carlos Scannone, ha scritto che “Il Papa non appoggia l’egemonia, da qualunque parte essa venga. Preferisce un mondo multipolare”.
Una visione, quella di Francesco, che ha portato anche a divisioni nella stessa Chiesa cattolica statunitense (che pure aveva contribuito in maniera determinante alla sua elezione), ultimamente più avvezza alle culture wars su aborto e gender che a divenire un ‘ospedale da campo’. Questo non significa che l’opera della Chiesa e dei suoi rappresentati possa essere facilmente catalogata in base alle divisioni destra-sinistra, conservatori-progressisti: un principio che vale in particolare per l’attuale pontefice, “che spesso con le sue uscite pubbliche disorienta la stessa Segreteria di Stato. Tutti ad esempio pensavano che andasse in Ungheria a bastonare Orban, quando e in realtà si è dimostrato uno dei più accesi sostenitori di certe politiche del premier ungherese”.
“La guerra in Ucraina è stato sicuramente un punto di svolta nel pontificato – conclude il vaticanista –: a mio giudizio all’inizio c'è stato anche un certo disorientamento nella politica estera della Santa Sede, perché Roma come da tradizione ha cercato di mantenere una posizione di terzietà”. Una posizione che però ha scontentato l’Ucraina, dove c’è un’importante comunità greco-cattolica, senza finora approdare a niente di concreto: proprio tornando dall’ultimo viaggio Francesco ha parlato di una “missione in corso” non ancora pubblica, provocando però smentite da entrambe le parti. Un papato che insomma anche sul piano internazionale appare innanzitutto interessato a ‘costruire ponti’ e ad ‘avviare processi’, ma che oggi rischia di apparire a sua volta spiazzato da un mondo sempre più instabile e multipolare.