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Venezia ‘79: una Biennale all’insegna delle famiglie disfunzionali

“Sta arrivando l’inverno” “c’è l’inflazione” “è finita l’era dell’abbondanza” sono solo alcune delle frasi che leggo sui social o che mi sento rivolgere da amici e conoscenti. La situazione, lo sappiamo tutti, non è delle migliori, ma io ho la mia arma segreta: consiste nel darsela a gambe finché si può. Negli anni ho imparato a rendere le mie fughe sempre più stimolanti, e quindi il Festival del Cinema cadeva a fagiolo.

Certo, l’anno scorso non era stato molto leggero. A un certo punto, obnubilata dalla carenza di sonno e di cibo, ero arrivata a pensare che ci fosse un piano molto preciso, caldeggiato dai Potery FortyTM: probabilmente ci si voleva liberare di qualche giornalista scomodo cercando di farlo suicidare (a chi non capita di essere investito da un vaporetto!), altrimenti non si spiegano i cinque giorni consecutivi di sangue, torture, morte e distruzione alle proiezioni stampa delle 22 (Sundown con omicidi in ridenti spiagge e malattie incurabili, L’evenement con il dramma di un aborto clandestino, Vidblysk, ispirato, diciamo solo questo, da un piccione che si è schiantato su un vetro, Capitan Volkonogov bezahl, con il protagonista che deve farsi perdonare le torture perpetrate per guadagnarsi il paradiso, Zeby nie bylo sladów, storia vera che era un po’ il caso Cucchi polacco). Uscivi dal cinema con la voglia di bere o di farti un abbonamento a Disney+ per stemperare tutto con qualche cartone animato e andare a dormire senza temere gli incubi.

Il piano dell'anno scorso però non ha funzionato molto bene, e non risultano giornalisti morti in circostanze tragiche, ma l’insuccesso non ha spaventato i Potery FortyTM che quest’anno ci hanno riprovato, ma in modo diverso: la Biennale ‘79, infatti, ha un leit motiv meno cruento ma comunque impattante, cioè le faglie disfunzionali. Non c’è limite al disagio che si può sviluppare tra le mura domestiche, e in effetti potremmo parafrasare Tolstoj (se non si è già rivoltato nella tomba durante la proiezione di Un couple, dedicato alla moglie) dicendo che tutte le famiglie felici si somigliano, ma che ogni famiglia disfunzionale è disfunzionale a modo suo.

Si può anche essere disfunzionali in modo divertente: non capita spesso, ma in “Argentina 1985” l’eroe è inizialmente presentato come affetto da complessi di persecuzione, al punto da spingere il figlio a pedinare la sorella perché il fidanzato di lei potrebbe essere un agente segreto.

Nella maggior parte dei film in tutte le rassegne, però, la disfunzionalità è più drammatica: in Pour la France abbiamo un padre che cerca di rapire uno dei due figli (l’altro a quanto pare non gli interessa), che dal canto loro crescendo sviluppano un rapporto di amore/odio finché uno dei due muore. Proseguendo, abbiamo una prozia che caccia di casa la nipote che ha già perso mamma e zia (Master gardener), due genitori inadatti a esserlo che sbolognano una figlia depressa a un istituto (All the beauty and the bloodshed) e una madre depressa che finge di non vedere i tradimenti del marito, ma in compenso balla da sola nella luce del tramonto e si nasconde sotto il tavolo insieme ai bambini durante le cene di famiglia( L’immensità).

Il personaggio interpretato da Penelope Cruz, comunque, non sembra l’unico che si vuole nascondere: dopo l’abbandono del marito una donna si rifugia nell’armadio rifiutandosi di uscire (Come le tartarughe) e il calendario è così saturo di drammi che già al terzo giorno di mostra la principale preoccupazione degli spettatori è capire come faceva la donna dell’armadio ad andare in bagno. Del resto dalla negatività dobbiamo pur difenderci.

Se però a qualcuno fosse venuto in mente che senza una madre e un padre la dose di disfunzionalità potrebbe diminuire, Blanquita ci toglie anche questa speranza: se finisci in una casa famiglia in cui il gestore ti utilizza per perseguire i suoi scopi, forse i genitori li rimpiangi. Ma non in questo caso, visto che il padre di Blanquita la violentava.

A questo punto ho deciso di dare inizio al mio personale concorso: si chiama Fantabiennale e funziona un po’ come il Fantasanremo, solo che invece che assegnare punti alle performance canore io li assegno ai segnali di disfunzionalità: per ora Amanda (Orizzonti Extra) sta vincendo a mani basse, con una ragazzina hikikomori, una psicologa che entra in competizione con l’amica di lei, che a sua volta non parla mai con coetanei e che ha una madre che le chiede pareri sulla nipote affidata a un’insegnante di sostegno, prima di mettersi a ballare da sola con movenze da manico di scopa (voleva copiare Penelope Cruz in L’immensità, evidentemente, ma c’è chi può e chi non può). Amanda è l’apoteosi della disfunzionalità, tra madri nevrotiche e padri non pervenuti, e l’unico rimpianto è che non sia stata scritturata Laura Morante nel ruolo, ormai, della nonna, la matriarca borderline che avrebbe completato il quadro.

Sarà difficile battere Amanda al Fantabiennale, ma ci sono dei titoli potenzialmente competitivi: vi faremo sapere!

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