CULTURA

I pionieri del vaccino

Alcuni giorni fa Unicef Italia pubblicava nella propria pagina Facebook la foto di alcuni bambini ammalati di poliomielite costretti all’interno di un “polmone d’acciaio”, un macchinario in cui venivano collocati i pazienti affetti da malattie respiratorie. Era il 1937 e il vaccino contro questa patologia non esisteva ancora. In sole 72 ore il post è stato visto da 1.124.420 persone, dichiara il social media manager. Eppure nel lungo dibattito che ne è seguito qualcuno si chiedeva se servisse guardare indietro. Serve, è la risposta, a far capire che prima del vaccino la poliomielite costringeva a vivere all’interno di una “bara d’acciaio pressurizzata”, mentre poi grazie alla vaccinazione la malattia è quasi scomparsa del tutto. La poliomielite è solo un esempio tra i molti di malattie che si è riusciti a contrastare grazie ai vaccini. Risultati, tuttavia, che rischiano di essere compromessi se si considera che nel 2014, stando ai dati del ministero della Salute, in Italia proprio la vaccinazione contro la poliomielite è scesa al di sotto del 95%, valore minimo previsto dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale. Così come la copertura per morbillo, parotite e rosolia, scesa dal 90,3% del 2013 all’86,6% del 2014. Guardare indietro, dunque, sapere come si è giunti al primo vaccino o quali erano le speranze di vita prima della sua scoperta può aiutare, se non a convincere, magari a scegliere con maggiore consapevolezza.

In questo caso è necessario fare un salto indietro di  più di due secoli. Siamo nel Settecento e allora in Europa, stando a Stefan Riedel, morivano di vaiolo 400.000 persone ogni anno e un terzo dei sopravvissuti andava incontro a cecità. Il tasso di mortalità variava dal 20% al 60% e lasciava cicatrici deturpanti a chi superava la malattia. Nei bambini il tasso di mortalità si avvicinava all’80% a Londra e al 98% a Berlino. Nel 1794 Ignazio Lotti stimava che in Veneto morissero ogni dieci anni più di 40.000 persone a causa della malattia. 

Per contrastare la patologia il primo passo fu il ricorso alla “vaiolizzazione”. Sostanzialmente veniva introdotta nel corpo una piccola quantità di materia virulenta per provocare la malattia in forma lieve e rendere la persona immune da eventuali contagi. Si trattava di una pratica nota probabilmente in Africa, in Cina e in India molto prima di essere introdotta in Europa. I commercianti circassi, racconta Riedel, intorno al 1670 introdussero la vaiolizzazione nell’impero ottomano. E le donne del Caucaso, molto richieste per l’harem del sultano turco a Istanbul per la loro bellezza, erano sottoposte a inoculazione da bambine. Queste, a loro volta, devono aver portato la pratica a corte. 

Nel nostro continente la procedura arrivò nel Settecento. A Padova fu il chirurgo Francesco Berzi il primo a sottoporre segretamente la figlia a questa pratica e Omobon Pisoni e Leopoldo Marc’Antonio Caldani, docenti all’università di Padova, i secondi. La procedura, tuttavia, non era priva di rischi se si considera che chi veniva sottoposto a vaiolizzazione potenzialmente costituiva un focolaio di diffusione della malattia. Senza contare poi i costi, spiega Ugo Tucci parlando del Veneto, dato che l’inoculazione prevedeva una degenza di 40 giorni durante i quali le persone venivano lavate, vestite e nutrite. Ragione per cui gli innesti privati furono più numerosi di quelli pubblici.

In Inghilterra intanto Edward Jenner, che si era formato a Londra con John Hunter uno dei più famosi chirurghi del Regno Unito, da tempo si dedicava allo studio del vaiolo. Nel corso degli anni aveva osservato che alcune categorie di lavoratori, contagiati da mucche ammalate di vaiolo bovino, diventavano immuni dal vaiolo umano una volta superata la malattia. Era necessario però verificarlo “sperimentalmente” e Sarah Nelms, giovane mungitrice che aveva contratto il vaiolo bovino, faceva al caso suo. Il 14 maggio 1796 Jenner prelevò del materiale virulento dalle pustole che la donna aveva nelle mani e nelle braccia e lo inoculò in un bambino di otto anni, James Phipps. Seguirono un po’ di febbre e perdita di appetito, sintomi lievi. Un paio di mesi più tardi il medico infettò il ragazzo con del virus di vaiolo umano e non ne seguì malattia alcuna. 

Jenner inviò un breve scritto con le sue osservazioni alla Royal Society che tuttavia rifiutò l’articolo. Ciò lo indusse nel 1798 a pubblicare a sue spese il volume An inquiry into the causes and effects of the variolae vaccinae, a disease known by the name of cowpox, frutto delle sue osservazioni dopo che anche altri casi avevano confermato il primo esperimento. “In un contesto scientifico, nel quale nulla poteva conoscersi (nei termini ai quali noi oggi facciamo riferimento) al riguardo dell’eziopatologia, nulla al riguardo delle risposte dell’organismo ospite – sottolinea Alessandro Porro, docente di storia della medicina all’università di Brescia – si verificava empiricamente un fatto di enorme interesse e rilievo: una malattia poteva proteggere da un’altra malattia”.

Quei risultati si diffusero ben presto nel resto d’Europa. In Italia l’opera di Jenner fu tradotta nel 1800 da Luigi Careno, che l’anno precedente aveva curato anche l’edizione latina a Vienna. La prima vaccinazione nel nostro Paese fu effettuata nel 1799 a Genova. A Venezia era stata compiuta il 19 novembre 1800 su Giambattista Giuseppe Albrizzi di 15 mesi; a Padova nel 1803. Milano (capitale della Repubblica Italiana dal 1802 e del Regno d’Italia dal 1805) ebbe un ruolo di primo piano nella lotta alla malattia attraverso la diffusione delle nuove pratiche profilattiche: con due decreti, del 1802 e del 1804, si stabiliva la gratuità della vaccinazione in ogni ospedale, le modalità con cui operare e la struttura organizzativa territoriale preposta. Senza contare la nomina di un direttore generale della vaccinazione nel 1801 nella persona di Luigi Sacco. 

Quello di Edward Jenner fu dunque il primo passo importante. Quasi due secoli dopo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’otto maggio 1980, dichiarava ufficialmente eradicato il vaiolo. E oggi la vaccinazione antivaiolosa non è più necessaria. 

Monica Panetto

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