UNIVERSITÀ E SCUOLA

Rifiutare il voto è un diritto umano fondamentale?

Nell’aprile scorso, il Senato accademico ha approvato un nuovo regolamento sulle carriere degli studenti in cui, tra le altre cose, si formalizza il diritto dello studente a rifiutare un voto e a ripresentarsi all’esame in una sessione successiva. Una prassi antica ma regolamentata solo ora in un atto ufficiale dell’ateneo.  In questa sessione di esami ogni docente deve ottenere l’accettazione esplicita del voto prima che questo compaia nel libretto elettronico dello studente (del meccanismo, un incubo buro-informatico, ci occuperemo un’altra volta). Occorre però chiedersi seci sono ragioni forti, compelling direbbero a Harvard o Yale, per dare agli studenti  – sempre e comunque – il diritto di rifiutare un voto. E se queste ragioni prevalgano su ragioni di segno opposto che esporrò qui sotto. 

Già sento ruggire i difensori di questa pratica degli anni Settanta: “E la media? La borsa di studio? Lo stage? L’Erasmus?”. In sintesi, il rifiuto del voto sarebbe un diritto umano fondamentale, una garanzia per i capaci e meritevoli di poter proseguire un percorso universitario di alto livello messo a rischio dal professore incompetente, nervoso, o tirchio nelle valutazioni.

È davvero così? No, le cose non stanno così. L’università come macchina che alimenta le disuguaglianze sociali ha le sue origini altrove. Come scrive il collega Andrea Stella su ROARS,

  • “Secondo l’OCSE, l’Italia occupa per spesa in educazione terziaria in rapporto al PIL il 32° posto su 37 Paesi considerati;
  • Il Paese investe appena l’1,0% del proprio PIL nel sistema universitario contro una media UE dell’1,5% e una media OCSE dell’1,6%;
  • La spesa annuale per studente nell’istruzione terziaria a parità di potere d’acquisto per studente equivalente a tempo pieno è inferiore del 29% rispetto alla media dei paesi OCSE e del 37% rispetto al PIL”.

I problemi stanno quindi nella mancanza di investimenti, che si traduce nell’accresciuto livello delle tasse universitarie, nel rifiuto dei governi di finanziare le borse di studio in misura sufficiente, nella mancanza di flessibilità nelle carriere e di sostegno per gli studenti che provengono da scuole mediocri, o da famiglie di genitori non laureati. Una università di massa necessariamente accoglie numerosi studenti provenienti da scuole mediocri che avrebbero bisogno di aiuto fin dal giorno dell’iscrizione perché non sono in grado di scrivere correttamente. Di queste necessità non ci facciamo carico, se non in misura minima.

In “compenso” diciamo agli studenti che, se il voto non è di loro gradimento, possono rifiutarlo.

Esaminiamo più attentamente le implicazioni di un sistema che consente il rifiuto del voto. Prima di tutto è l’opposto della tanto sbandierata “cultura della valutazione”: tu, docente, mi giudichi in un modo che non mi piace? E io non ci sto. Il presupposto implicito è che i docenti non sono professionalmente competenti ma soggetti a ubbie, preferenze, quando non corrotti per ragioni familistiche o ancor meno confessabili. La delegittimazione complessiva del corpo docente, già onnipresente sui media, è un contributo al buon funzionamento dell’università, alla passione per lo studio, alla crescita degli studenti? Non credo. Il secondo problema è che il rifiuto del voto incentiva fortemente a “provarci”, complicando la vita di tutti. Vado all’esame avendo studiato metà del manuale e spero nella buona sorte. Siamo tutti stati studenti e quasi tutti noi si sono presentati a un esame difficile, almeno una volta, contando sulla distrazione, la stanchezza o la benevolenza del docente. Forse sarebbe didatticamente più efficace, e meno faticoso per i docenti, se all’esame venissero 100 studenti invece di 200, quelli che hanno una ragionevole speranza di ottenere un voto fra 18 e 30 e lode. Siamo umani e possiamo sbagliare, possiamo dare 27 a chi meriterebbe 30, dare un’insufficienza a chi meriterebbe 18. Ogni attività di valutazione è soggettiva, anche i giudici sbagliano: vogliamo abolire la magistratura? Le sentenze vengono corrette in Appello e in Cassazione, ma non è ancora stato inventato il diritto di “non accettarle”. Gli studenti più consapevoli dovrebbero richiedere un’università più rigorosa, in cui non ci siano sconti e furbizie per nessuno.

Si parla quotidianamente di “internazionalizzazione”. Quello di rifiutare il voto è un “diritto” che nei migliori atenei all’estero non esiste. Nei paesi normali, prendiamo gli Stati Uniti, l’esame si sostiene alla fine del corso, anzi non esiste neppure “l’esame” come da noi, esistono delle prove finali che sono una parte degli elementi di valutazione del docente, il quale assegna un voto sulla base delle prove sostenute durante l’anno, della frequenza e della partecipazione in classe. Il che significa creare un percorso didattico alla fine del quale il docente può avere elementi di valutazione molto più completi e attendibili sul livello di impegno, comprensione e preparazione complessiva dello studente. Tutto questo si traduce in un “A”, “B” o altro, fino a “F”, una bocciatura alla quale si può rimediare solo rifacendo il corso (e pagando), non presentandosi all’appello successivo, magari dopo 15 giorni.

L’università avrebbe aule più affollate, studenti più attenti, professori più motivati se gli studenti sapessero che un’insufficienza è un’insufficienza e che rimane scritta sul libretto, cartaceo o elettronico che sia. Vogliamo ripensarci?

Fabrizio Tonello

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