CULTURA

Il senso delle cose nei film

“Un unico mistero, le persone e gli oggetti”, scriveva Robert Bresson in Note sul cinematografo. L’indimenticabile osso di 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968) è il trionfo di tale mistero. E muta lentamente, appoggiandosi alle note di Sul bel Danubio blu, subendo e producendo una trasformazione, da osso a veicolo spaziale, da cosa naturale ad artefatto. Il mondo delle storie nel cinema non è una stanza vuota, è “ammobiliato”. Le cose hanno un ruolo nella costituzione dell’universo filmico e nella formazione del nostro immaginario cinematografico. A dirlo è Antonio Costa, autore del libro La mela di Cézanne e l'accendino di Hitchcock, edito da Einaudi. Un titolo che cita Godard e il suo Histoire(s) du cinéma: “Sono diecimila persone, forse, che non hanno dimenticato la mela di Cézanne ma sono un miliardo gli spettatori che si ricorderanno dell’accendino di Delitto per delitto”. Da una parte il trascurabile numero di chi ricorda una natura morta - forse nota ai più per il suo passaggio al cinema, con la scena di Manhattan in cui Woody Allen la inserisce tra le “cose per cui vale la pena vivere”- dall’altra il piccolo oggetto che attraversa il film di Hitchcock.  

Oggetti che riempiono lo spazio scenico di significato, oggetti che si ribellano e diventano altro, che producono risonanze e trasformazioni, introducendo qualcosa di nuovo. “Eventi, esistenti (personaggi e cose), trasformazioni sono i fattori strutturali della narrazione. Tra questi, gli esistenti-cose sono i più trascurati, relegati sullo sfondo a tutto vantaggio dei personaggi”. Cose più che oggetti, per seguire il ragionamento di Remo Bodei, che in un altro libro dedicato a La vita delle cose introduce questa ulteriore distinzione: capovolgendo la prospettiva narratologica, il filosofo lascia i personaggi sullo sfondo e, superando la concezione strumentale dell’oggetto, mette in primo piano le cose che mutano il loro status: “Il privilegiare la cosa rispetto al soggetto umano serve per altro a mostrare il soggetto stesso nel suo rovescio, nel lato più nascosto e meno frequentato. Investiti di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, gli oggetti diventano cose, distinguendosi dalle merci in quanto semplici valori d’uso e di scambio o espressioni di status symbol”.

Accendini, chiavi, occhiali, scacchi, tazze e tazzine, spremiagrumi (il Juicy Salif, progettato nel 1990 dal designer Philippe Starck per Alessi, attraversa epoche e generi ispirando addirittura l’astronave aliena di Men in black II). E ancora, i libri da salvare in Fahrenheit 451 (François Truffaut, 1966), la bicicletta volante di E.T. l’Extra-Terrestre (Spielberg, 1982), gli specchi che portano con sé il gioco delle false apparenze ne Il circo di Chaplin (1928) o creano labirinti che disorientano come avviene ne La signora di Shanghai di Orson Welles (1948), la panchina ne L’avventura di Antonioni (1960), in Forrest Gump di Zemeckis (1994) e in Dogville di Lars Von Trier (2003). Cose che definiscono e animano la messa in scena cinematografica, contribuendo alla definizione dei caratteri stessi. “Capi e accessori di abbigliamento sono ovviamente i più importanti e i più sfruttati – scrive Costa nel suo libro – Si pensi alle giacche un po’ sformate e agli occhiali nei primi film di Woody Allen. Gli occhiali, in particolare, sono i più utilizzati, anche per la funzione di vera e propria maschera che possono assumere. Né meno importanti sono le scarpe, anche se in modo (apparentemente) meno vistoso”. In Bianca (1984), Michele Apicella, alias Nanni Moretti, traccia il profilo di una generazione partendo dai piedi: “Ogni scarpa una camminata, ogni camminata una diversa concezione del mondo”. A tal proposito Costa chiarisce: “A differenza del cappello, depositario di identità e ruolo pubblico del soggetto che lo indossa (non a caso è una delle componenti essenziali di ogni divisa), le scarpe definiscono gli aspetti più intimi e segreti di una persona, della sua storia. Esiste inoltre un feticismo della scarpa, strettamente connesso a quello del piede, sul quale è possibile elencare una nutritissima filmografia, da L’âge d’or di Buñuel a Basic instinct e a Bastardi senza gloria. Chi visita il Museo dalla calzatura (Villa Foscarini Rossi, Stra – Venezia) vi trova esposto il modello di scarpe calzate da Sharon Stone in Basic instinct, un bel caso di feticismo di secondo grado: una sorta di sintesi di feticismo divistico e feticismo di prodotto”. E continua: “Nel gioco della trasposizione metaforica degli oggetti, la scarpa viene associata al cibo: lo fa Chaplin in La febbre dell’oro, in una delle più celebri sequenze del suo cinema, e lo fanno Stan Laurel e Oliver Hardy in I fanciulli del West. La gag di Charlot è basata sulla commestibilità, del tutto immaginaria, di una scarpa mentre Stan e Ollie ne costruiscono una a partire dall’incommestibilità di una bistecca”. Ma la relazione tra attore e oggetto può passare anche attraverso cose meno appariscenti, “meno legate all’evoluzione della moda e dei consumi, ancorate alla quotidianità più minuta piuttosto che all’abbigliamento”. È il caso del realismo della commedia all’italiana, quello che Il segno di Venere di Dino Risi (1955) presenta una giovane e procace Sophia Loren alle prese con una grande scodella di latte mentre fa colazione restando comodamente seduta a tavola, e associa invece la figura della cugina, interpretata da una Franca Valeri imprigionata in un severo impermeabile, a una piccola tazzina con poco caffè da sorseggiare rigorosamente in piedi, restando sull’attenti. Un esempio di come due personaggi con caratteristiche opposte si possano definire proprio attraverso le cose. Possiamo dimenticare qualche passaggio della trama di un film, ma non quel particolare oggetto. Ovunque ci sia una storia, diceva James Hillman, da qualche parte c’è anche una finestra. Così difficilmente ci scorderemo di quella sul cortile, da cui James Stewart osservava le vite degli altri.

Francesca Boccaletto

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