CULTURA

Il Vénitien di Parigi: Federico Zandomeneghi

Sprofondata su di una poltroncina da camera verde, di spalle, la donna si stiracchia, le dita attorcigliate, le pantofoline rosa, una veste da notte che la infagotta, mentre la cameriera infila la testa nell’armadio, fra il blu delle tende e della tappezzeria. Un momento rubato di mattiniera intimità, femminile e borghese, parigina. Quei capelli morbidi, il bracciale celeste, il viso schiacciato lungo un braccio. Immagine curiosa di un Ottocento domestico ritratto da un veneziano esule, Federico Zandomeneghi. A lui è dedicata la mostra allestita a Palazzo Zabarella a Padova, aperta fino al 29 gennaio 2017.

A chiamarlo «Vénitien» erano gli artisti con cui si accompagnava a Parigi, “falange d’indipendenti” secondo il critico Martelli, che lo avevano invitato a fare parte, unico italiano, al proprio gruppo, quello degli impressionisti. E così Zandomeneghi, lasciata Venezia, si trovò nel 1874 al centro del mondo artistico, investito da quella ineludibile carica di innovazione che aveva perseguito nella sua città natale ma anche nel corso dei suoi studi milanesi, e soprattutto a Firenze, dove aveva aderito al gruppo dei Macchiaioli. Costretto nella metropoli francese all’incessante confronto con gli stessi maestri che l’avevano accolto, fu presto destinato a una sorta di subalternità rispetto ai grandi Degas, Pissarro, Renoir e più tardi anche a Toulouse-Lautrec. L’Impressionismo, divenuto per Zandò l’espressione del suo imprescindibile anelito alla modernità, si tramutò in scelta di vita, costringendolo a un esilio senza soluzione: l’adesione a quello stile straordinariamente all’avanguardia gli valse infatti per lunghi anni l’incomprensione del pubblico e della critica italiana. 

Ma Zandomeneghi era avvezzo a prendere decisioni difficili. Rampollo di una famiglia di scultori canoviani, autori anche del famoso monumento funebre a Tiziano nella chiesa dei Frari, lasciò i facili guadagni in Italia per intraprendere una nuova vita lontano da Venezia, ritrovandosi a campare disegnando figurini per i giornali di moda, senza però mai abbandonare la propria strada. Per arrivare a dipingere come loro, i maestri. E seppur aderendo all’Impressionismo, mantenne in tutta la sua produzione i tratti distintivi dell’arte appresa a Venezia, che nella qualità del colore svelava le sue origini. Zandomeneghi ritagliava in quegli anni un proprio personalissimo spazio nel gruppo impressionista dipingendo un’umanità animata di sentimento, ritratta nei gesti consueti, nei sorrisi timidi, gli sguardi abbassati, nei salotti, le camere da letto, i caffè parigini, i parchi cittadini. “Le sue figure posseggono calore e umanità, qualità assenti invece in altri impressionisti, come Degas”,  osserva Francesca Dini, curatrice della mostra padovana. Come ne Al Caffè Nouvelle Athènes, dipinto del 1886, dove emergono questi “punti di forza della poetica di Zandomeneghi, il calore e la naturalezza”.

A sinistra: Au café (Coppia al caffè), 1885; a destra La Terrasse (La Terrazza), 1895

Il veneziano consolidò la propria posizione originale all’interno del movimento impressionista divenendo l’interprete della nuova sensibilità femminile parigina, domestica e borghese. Donne alla toilette, amiche che confabulano di fronte a un tè, una ragazza in camicia lunga e bianca da notte si sistema il riccio fulvo con un pettinino giallo, il cagnolino sdraiato sul tappeto e un vaso azzurro con una pianta d’appartamento. Donne che sistemano fiori, si specchiano, s’aggiustano il cappellino colorato sulla testa, che cantano in gruppo o che sommessamente si scambiano confidenze, gli sguardi vicini e complici, la camicetta sbuffante, le mani a reggere il viso e la curiosità negli occhi. È, quella di Zandomeneghi, una Parigi abitata di pochi uomini con bombetta e panciotto e di donne che come loro si siedono ai caffè all’aperto, come a La Terrasse. Di chiome rosse di ragazzine vestite d’azzurro che leggono, di frutta sui tavoli del soggiorno, di poltroncine imbottite, carta da parati, pianoforti a muro, di viali e ombrellini, di mani di madre che pettinano la figlia. È la Parigi di un veneziano che scelse la modernità del gesto quotidiano, della pennellata veloce e del colore potente. E che a Venezia non tornò più, nemmeno quando, finalmente, la sua città ne riconobbe il valore, e gli dedicò una personale alla Biennale.

Chiara Mezzalira

A sinistra La lecture (Bambina dai capelli rossi), 1900; a destra La tasse de thé (La tazza di tè), ante 1903

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