UNIVERSITÀ E SCUOLA

1945-1968, l’Ostpolitik delle università

Settanta anni fa, con la capitolazione della Germania e del Giappone, finiva la seconda guerra mondiale. Contemporaneamente iniziava la guerra fredda, le cui basi erano però state gettate all’inizio dell’anno con la conferenza di Yalta: 44 anni in cui l’Europa è divisa in due dalla cortina di ferro. Un periodo di forte contrapposizione politica e ideologica, in cui si trovano ad operare anche istituzioni, come le università, geneticamente votate all’internazionalizzazione.

Tra esse l’università di Padova, che sin dalla sua fondazione si contraddistingue per la sua dimensione europea, simboleggiata dalle nationes: associazioni di studenti che “fin dalle origini – scriveva il grande medievista Sante Bortolami – … Sono simboli viventi di caratterizzazione identitaria ma anche potenti vettori di integrazione a livello europeo”. Cosa resta di questa tradizionale apertura durante il periodo della contrapposizioni in blocchi? Lo chiediamo a Benedetto Zaccaria, giovane studioso di storia moderna, fresco reduce da un lavoro sugli archivi dell’ateneo padovano. Partiamo dall’inizio: “Nella fase immediatamente successiva alla guerra l’università si trova ad essere oggetto piuttosto che soggetto di decisioni – spiega lo storico –. La vita accademica è condizionata dalla presenza delle truppe alleate ed è rivolta innanzitutto alla soluzione di bisogni primari, come la ricostruzione degli edifici danneggiati dai bombardamenti e i rifornimenti di legname per il riscaldamento. Gli unici rapporti di carattere internazionale sono intrattenuti dall’università con i circuiti europei di assistenza post-bellica, come la sezione italiana del Fonds Européen de Secours aux Etudiants, a cui si chiedono coperte, materassi, lenzuola, federe e letti per rifornire gli alloggi studenteschi, e l’American Relief For Italy. Per le mense universitarie ci si rivolge invece all’agenzia delle neonate Nazioni Unite incaricata di coordinare i soccorsi umanitari nel continente europeo: la United Nations Relief and Rehabilitation Administration”. 

Con i paesi dell’Europa orientale, in conseguenza del clima politico generale, all’inizio i rapporti sono sporadici: “Nel giugno 1946 ad esempio alcuni rappresentanti dell’Unione Sovietica visitano l’università in maniera non ufficiale – continua lo studioso –. La delegazione viene accolta dal rettore Egidio Meneghetti ‘con amicizia e cordialità’, ma provoca anche violente proteste anti-sovietiche da parte di esponenti dell’irredentismo giuliano-dalmata, accompagnate dalle contro-proteste del partito comunista, con una discreta eco non solo sul piano locale, ma anche nazionale”. 

Con la graduale ripresa economica e una sempre maggiore autonomia dal controllo delle forze alleate, l’università di Padova inizia trovare maggiori spazi nei rapporti culturali con l’estero, cercando di recuperare un ruolo di “faro per la diffusione del pensiero italiano oltre i non lontani confini” (come scriverà il rettore Guido Ferro al presidente della Repubblica Einaudi, in visita a Padova nel 1951). Si inquadrano in questo contesto da un lato l’assistenza ai profughi istriani e l’attenzione per la situazione di Trieste (che nel febbraio 1947 viene staccata dall’Italia e costituita in ‘territorio libero’), dall’altro la creazione nel 1951 dei corsi estivi di Bressanone. “Decisivo in questo caso fu l’appoggio di Alcide de Gasperi e del suo giovane sottosegretario Giulio Andreotti – spiega Zaccaria –. Questi corsi ebbero subito un forte significato politico ed assunsero progressivamente un carattere sempre più internazionale ed europeo, proprio negli anni in cui de Gasperi si batteva per la creazione di una comunità politica europea. E fu proprio il politico trentino a spingere Ferro a internazionalizzare i corsi, tramite l’invito di docenti e studenti provenienti da ogni parte d’Europa. Il governo italiano riconosceva in pratica nell’università di Padova uno strumento di diplomazia culturale”. 

Nella metà degli anni Cinquanta questa vocazione internazionale inizia a volgersi sempre più ad oriente: “Con i moti ungheresi del 1956 l’università di Padova è in prima fila nell’assistenza ai profughi, secondo uno spirito di storica fratellanza con gli atenei magiari. Il campanone del Bo suona a lutto, mentre nel cortile universitario viene svolta la cerimonia dell’alzabara per gli studenti morti nelle strade di Budapest; il 30 ottobre 1956 anche il Senato accademico adotta un ordine del giorno in cui si loda la ‘temeraria generosità della gioventù studentesca ungherese’”. Una presa di posizione forte, che però non impedirà qualche anno più tardi di tornare a stringere legami scientifici e culturali non solo con l’Ungheria, ma anche con diversi paesi del Patto di Varsavia: Padova rientra ad esempio nel quadro dell’accordo culturale firmato dall’Italia con l’Ungheria nel 1963-64. Sempre in questo periodo, che va dalla metà degli anni cinquanta alla fine degli anni Sessanta, l’università di Padova riprende gli antichi contatti, anche a livello ufficiale, soprattutto con università rumene, polacche e jugoslave. Rapporti in cui saranno determinanti figure come quelle di Carlo Tagliavini, italianista e glottologo, preside della facoltà di lettere, e Arturo Cronia, titolare della cattedra di letteratura serbo-croata, i quali riprendono così il lavoro svolto già in epoca fascista. 

All’inizio degli anni Sessanta fervono le attività: viene concluso un accordo con Iaşi, una delle quattro principali università rumene, mentre nel 1964 l’università di Padova partecipa con tutti gli onori alle celebrazioni per il sesto centenario dell’università Jagellonica di Cracovia, la più antica della Polonia. Ci sono poi conferimenti di lauree honoris causa, conferenze e seminari internazionali, creazione di cattedre per lo studio delle rispettive lingue. Un piccolo disgelo che corre sul binario delle relazioni accademiche e che è molto apprezzato dal stesso governo, che attraverso il ministero degli esteri coinvolge sempre più gli atenei, tra cui Padova, nella politica estera italiana. “Innanzitutto è mutato il clima internazionale – spiega Zaccaria –. All’interno del campo sovietico si assiste al cosiddetto processo di destalinizzazione, mentre anche la politica italiana vive una nuova fase, grazie soprattutto al lancio della formula del centro sinistra”. 

Fino al 1968, quando la Primavera di Praga viene repressa nel sangue dalle truppe sovietiche: “Anche in questo caso l’Università manifesta tramite il Senato accademico la propria condanna e si impegna concretamente nell’assistenza ai profughi – conclude Zaccaria –. Le proteste si elevano soprattutto da Bressanone, dove si stanno svolgendo i corsi estivi. Una delegazione di studenti padovani, guidata dal professor Giuseppe Bettiol, cerca persino di recarsi al confine tra Austria e Cecoslovacchia per dare assistenza agli studenti profughi, ma viene respinta al confine austriaco”. Altri tempi, in cui – come abbiamo raccontato – i profughi erano popolari in Italia, in particolare in Veneto. Ma questa è un’altra storia.

Daniele Mont D’Arpizio

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