UNIVERSITÀ E SCUOLA

Addio all’università

Per gentile concessione dell’editore Laterza, pubblichiamo un estratto del libro di Roberta Carlini Come siamo cambiati. Gli italiani e la crisi, che arriva nelle librerie in questi giorni

“Fino a cinque o sei anni fa la metà dei miei studenti si iscrivevano all’università, dopo aver preso il diploma. Adesso ne conto due o tre in ogni classe”. Sara Amato, professoressa di inglese in un istituto tecnico di Casoria, è una delle tante inviate dello Stato nei territori dei Neet: acronimo diventato familiare ormai nella nostra lingua scritta e parlata, a indicare i giovani che non sono più a scuola e non sono ancora al lavoro; né sono coinvolti in alcun percorso di formazione, Not in Education, Employment or Training. Il loro livello alto, troppo alto per una potenza che si vuole pur sempre europea; la loro crescita continua negli anni della crisi; la dislocazione territoriale, con una concentrazione fortissima nel Mezzogiorno: tutto ciò ha fatto dei Neet una questione nazionale, senza che peraltro nei posti in cui l’emergenza si dovrebbe affrontare – le scuole in primo luogo – arrivassero soldi e soldati per combatterla. I professori, inviati alla prima linea spesso inconsapevoli e non equipaggiati dall’alto per tale guerra, si trovano così ad assistere al cambiamento delle strategie dei ragazzi che gli scorrono davanti, e delle loro famiglie. 

“Adesso l’idea che prevale è quella di andarsene dall’Italia. Inghilterra, Germania, Australia, Nuova Zelanda. Si rincorrono le storie di chi è andato e ha avuto successo, si è messo a studiare e anche a lavorare nell’uno o nell’altro paese”. Per molti di loro, la cattedra dell’insegnante d’inglese è un po’ il confessionale di questi sogni: in fondo, è grazie a quel poco o quel tanto di lingua straniera che hanno imparato finora che possono pensare di fare il salto oltrefrontiera. E questi sogni sono molto concreti, basati su un preciso calcolo dei costi e dei benefici della prosecuzione degli studi in Italia: “Se vanno in Germania, non è necessariamente per lavorare, ma perché pensano che lì possono lavorare e studiare insieme, oppure lavorare senza rinunciare del tutto allo studio, in futuro. Contano su tasse universitarie più basse o inesistenti, e su percorsi certi al termine dei quali c’è spesso un inserimento lavorativo professionale. Anche se, per mantenersi, intanto devono fare i camerieri”. Sara avverte i rischi di un’esagerazione, una sovrastima se non un’illusione su quel che la spedizione all’estero può dare. Il sogno che si vuol sognare spesso è frutto di un passaparola che privilegia le storie di successo, quasi da favola, e nasconde le altre: “Poi succede che magari molti non ce la fanno, ma almeno hanno un lavoro e una vita autonoma dai genitori”. 

Quel che è successo agli studenti di Sara a Casoria non è un’eccezione, ma una condizione che li accomuna ad altri coetanei in contesti economici, sociali e culturali diversi. Il numero di quanti proseguono gli studi dopo la scuola superiore ha smesso di crescere. L’università italiana ha perso studenti, appeal, attrattività; e più di un quinto degli immatricolati in dieci anni. Anno dopo anno, gli atenei hanno visto ridursi la quantità di ragazzi alle sue porte, al ritmo di 8-10mila studenti all’anno in meno. Una brusca inversione di rotta, dopo gli anni della crescita delle iscrizioni all’università, iniziata con la riforma del “processo di Bologna” alla fine del secolo scorso – la riforma internazionale che ha interessato il sistema universitario europeo, e che ha introdotto nel nostro sistema il cosiddetto “tre più due”. Naturalmente, dietro questi dati ci sono molteplici fattori, sui quali si indagherà in questo capitolo, cercando di capire quanta parte del calo è fisiologica, legata cioè al decremento demografico; e quanto pesi il venir meno  di alcuni elementi di “doping” presenti nel sistema universitario negli anni precedenti.  Purtroppo, anche al netto di questi fenomeni, resta il dato di una riduzione della quota di giovani che escono dalle scuole superiori e vanno all’università. Si riduce il passaggio, già stretto, verso il livello più alto della conoscenza e delle competenze. 

Nel panorama della Grande Recessione, è un caso raro se non unico: un paese che non taglia solo i consumi e gli investimenti sulla produzione materiale, ma anche sulla conoscenza. Aggravando una situazione di partenza che era già difficile: l’Italia è terzultima, tra i paesi dell’Unione europea, per percentuale di laureati sulla popolazione (con il 13,8% di persone tra i 15 e i 64 anni in possesso di diploma di istruzione terziaria, contro il 24,15% della media dell’Ue-27). 

La lenta marcia di avvicinamento, con la grande crisi, si è prima arrestata e poi ha preso la direzione contraria. Anche per questo l’obiettivo dell’Unione europea per il 2020 – avere il 40 per cento di laureati nella fascia di popolazione tra i 30 e i 34 anni – è stato abbassato, per l’Italia, alla più realistica quota del 26 per cento: che appare comunque irraggiungibile ora, visto che ci separano da quell’asticella tre o quattro punti percentuali, ma di ragazzi che provano a saltare ce ne sono sempre meno. Non parliamo, per ora, di grandi numeri e di un esodo di massa dalle aule universitarie. Ma il segnale, benché piccolo, è netto e molto preoccupante. Non solo per gli effetti su quello che viene definito “capitale umano”, confinando nell’ambito della produzione e dello sviluppo economico il danno del disinvestimento in conoscenza; ma anche per le sue conseguenze sulla distribuzione del benessere e della ricchezza, e sulla mobilità tra le classi sociali. Chi sta rinunciando all’università, dove e perché? 

Basta la licenza media?

Gli annunci strillati nelle vetrine delle edicole per vendere i giornali specializzati in offerte di lavoro, sono sempre di livello medio-basso e basso. Nessuna meraviglia che si veda spesso, in lettere cubitali e sgargianti, la preposizione “senza”: richieste per operai senza qualifica, giovani senza esperienza, addetti senza titolo. Uno di questi giornali, nella primavera del 2014, ospitava un titolo che ci dice qualcosa, anche sull’argomento di questo capitolo. Un bando pubblico, per l’assunzione di 650 allievi agenti nella Polizia di Stato, con il seguente banner, blu elettrico su fondo giallo: “Basta la licenza media”. Questa la pubblicità, poiché nel testo ovviamente la cosa veniva spiegata col linguaggio dovuto: il diploma di scuola media inferiore. Quello che i ragazzi e le ragazze prendono a 13-14 anni, e dopo il quale – secondo una legge dello Stato – devono proseguire l’istruzione almeno fino ai sedici anni. 

Apparentemente, con quel bando lo Stato italiano stava assumendo in violazione di una sua legge. Un paradosso che ha varie spiegazioni possibili: il fatto che le qualifiche che si possono avere a sedici anni, nella giungla regionale della formazione professionale, sono incerte e non sempre riconosciute, dunque si abbassa l’asticella alla terza media per non escludere chi non è arrivato al diploma professionale per colpa di un sistema inefficiente e caotico; i programmi della stessa Polizia di Stato, che dopo aver fatto entrare i nuovi assunti fa al suo interno la formazione; la necessità di mantenere porte aperte per molti ragazzi che provano a entrare nella Polizia per il canale della “ferma”. Resta l’impatto molto forte, simbolico e culturale, di quell’annuncio: basta la licenza media. Non solo la massa delle imprese italiane – che ancora nel 2013 dichiaravano di voler assumere, per l’anno successivo, il 14,8% di laureati, il 51,2 di diplomati e il 34% di senza diploma – ma anche lo Stato si accontenta. Non serve di più, neanche per quella funzione delicata e di trincea che è tenere la sicurezza nelle strade, nelle piazze, nei posti pubblici. E questo, mentre la retorica pubblica e privata faceva crescere l’enfasi sulla competenza, sulla conoscenza, sul merito come chiave dello sviluppo presente e futuro. Ma un’altra retorica, più sottile e bisbigliata, andava costruendo intanto un senso comune per cui in Italia ci sono troppi laureati, oltre che troppe università: che non solo “con la cultura non si mangia” (frase diventata storica, secondo le cronache pronunciata dall’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti all’indirizzo di suoi colleghi che protestavano contro il taglio dei fondi ai beni culturali, nell’ottobre 2010), ma anche che, quando le risorse sono scarse, l’investimento in titoli di studio diventa un lusso superfluo.

Nel periodo in cui la Polizia di Stato faceva uscire il suo annuncio, il messaggio a quanto pare era già stato recepito. Dopo un quindicennio di continua ascesa, le immatricolazioni nelle università italiane avevano preso a ridursi già dall’anno accademico 2004-2005, dal picco di 338.036 nuovi ingressi toccato l’anno prima. Ma a quel tempo, e ancora per qualche anno, si scontava l’effetto di sgonfiamento di un fenomeno particolare, che ha caratterizzato e in parte drogato il boom universitario italiano: scendevano infatti soprattutto le iscrizioni degli studenti adulti, di quelli che non arrivavano con il diploma di scuola superiore fresco fresco in tasca, ma tornavano (o entravano per la prima volta) nell’università, dopo aver fatto altro e spesso lavorando, proprio per effetto dell’attrattività delle lauree brevi della riforma, e per la concessione di consistenti incentivi a farlo – in termini di riconoscimenti di crediti formativi che hanno premiato particolari categorie del pubblico impiego, come le forze di polizia, e appartenenti ad albi e ordini professionali. Dello sgonfiamento delle immatricolazioni all’università nel decennio che va dal 2003 al 2013, che nel complesso ha portato a una perdita del 20 per cento, ben il 76 per cento è dovuto al venir meno di nuovi studenti di età superiore ai 22 anni – uno “sboom” particolarmente evidente dal 2006, anno in cui il governo stringe i freni ed emana regolamenti che non consentono più alle università le generose regalìe di crediti formativi fatte in passato.

Qualcosa di diverso, invece, comincia a succedere negli anni più vicini a noi. Quando si registra un calo anche nelle iscrizioni dei più giovani. Nel complesso del decennio “mappato” dall’Anvur (l’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca), il calo delle immatricolazioni al di sotto dei 22 anni è del 7,6 per cento.  A guardare i dati più da vicino, si vede una cesura netta proprio a cavallo della grande crisi. Nell’anno accademico 2007-2008, gli immatricolati di 18 e 19 anni (le fasce d’età nelle quali ordinariamente si entra all’università) erano 208.370. Da quel momento hanno cominciato a perdere colpi, quel piccolo esercito si è ridotto anno dopo anno per arrivare nel 2011-2012, a 195.627. E i dati successivi dell’anagrafe degli studenti dicono che l’emorragia continua (non sono paragonabili, per diversità nei criteri di calcolo, ma mostrano identico trend fino all’ultimo anno disponibile, il 2013-14). 

Non si tratta di un fenomeno spiegabile in base alle dinamiche demografiche, o alle scelte prevalenti sugli studi superiori fatti. Negli stessi anni infatti resta più o meno stabile la popolazione dei diciannovenni, e anche il numero dei ragazzi e delle ragazze che si diplomano. Aumentano gli studenti che escono dai licei, a discapito di tecnici e professionali: ma questo dovrebbe aumentare, e non ridurre la quota degli universitari. Quel che si riduce è il transito dalla scuola all’università. Sempre dalle tabelle dell’Anvur viene fuori che la percentuale di diciannovenni che si iscrive all’università è scesa in sei anni dal 31,9 al 29,5 per cento; e il tasso di passaggio all’università (ossia, la percentuale di immatricolati di diciotto e diciannove anni sul totale dei diplomati) scende di più di tre punti percentuali, dal 46,3 al 42,7 per cento.

“Non è scontato, che una crisi economica e occupazionale abbia un effetto del genere.  Anzi, può succedere, e spesso succede, il contrario: nei primi anni delle difficoltà economiche, visto che sul mercato del lavoro cala l’occupazione e sono soprattutto i giovani a essere esclusi, potrebbe risultarne anche un aumento delle iscrizioni all’università, se non altro per mancanza di alternative”, commenta Roberto Torrini, direttore generale dell’Anvur. E infatti non si registra analogo fenomeno negli altri grandi paesi europei, neanche in quelli nei quali la portata e la durezza della crisi è confrontabile al caso italiano. Se si guarda ai grandi paesi europei, in tutti il tasso di ingresso ha continuato a salire, ed è cresciuto  anche il numero totale di iscritti all’università, dal 2008 al 2012; è in aumento, di quasi 200mila unità, anche in Spagna, paese direttamente confrontabile per caduta della produzione e livello della disoccupazione, in particolare quella giovanile. 

Anzi in Spagna i primi anni della Grande Recessione hanno visto il fenomeno opposto: sono tornati all’università molti giovani che, con la bolla immobiliare e finanziaria, l’avevano lasciata per impieghi molto remunerativi; e solo dopo qualche anno si è avuto un contraccolpo negativo, con una discesa delle immatricolazioni, sulla quale però pesa più che da noi il fattore demografico. 

Il non invidiabile primato italiano nella corsa a uscire dall’università è messo in risalto anche nel rapporto che l’Ocse sforna annualmente, Education at a Glance. Nell’edizione del 2014 si sottolinea la riduzione “significativa” dei tassi di iscrizione agli studi universitari in Italia, e si fa un calcolo proiettato verso il futuro. Come si è visto prima, all’università ci si può iscrivere sempre, e non è detto che chi ha rinunciato a diciannove anni non ci ripensi più tardi. Ma, anche ammettendo che la tendenza alle iscrizioni “tardive” resti al livello attuale, avremmo perso un bel po’ di laureati: “Se gli attuali andamenti persistessero, si stima che il 47% della coorte dei 18enni di oggi accederebbero a programmi d’insegnamento terziario di tipo A (ossia di livello universitario) durante il corso della propria vita, rispetto a un tasso del 51% nel 2008”, scrive l’Ocse nella parte specifica del suo Report dedicato all’Italia, notando che “questo rapporto percentuale è basso rispetto ai paesi dell’Ocse e del G20 con dati disponibili in materia, che in media registrano un tasso d’iscrizione all’università del 58%”. Se si salta a qualche pagina più avanti nello stesso Rapporto, e si va al capitolo dedicato agli effetti della crisi economica sulla spesa pubblica per l’istruzione, si trova l’altro tratto distintivo dell’Italia, che si trova nel gruppo limitato di paesi che hanno tagliato sia la spesa pubblica complessiva sia quella per istruzione (gli altri sono: Stati Uniti, Regno Unito, Islanda, Estonia, Ungheria); e nel gruppetto ancora più ristretto di quanti hanno tagliato la spesa pubblica per l’istruzione più delle altre spese (e stavolta condividiamo la scelta solo con Estonia e Ungheria). Ma torneremo sulle politiche alla fine di questo capitolo. Dopo aver seguito le tracce di chi è “caduto fuori” dall’università.

Roberta Carlini

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