UNIVERSITÀ E SCUOLA
Atenei e aziende, una relazione ancora con troppi ostacoli
Foto: Francesco Anselmi/contrasto
Una fotografia dei rapporti tra università, studenti, imprese, mondo del lavoro attraverso lo sguardo degli stessi atenei: il rapporto 2015 dell’Osservatorio università-imprese della Fondazione Crui (collegata alla Conferenza dei rettori delle università italiane) permette di far luce su una relazione storicamente non facile ma sempre più centrale per entrambi. Perché la capacità degli atenei di prevedere e analizzare le esigenze formative e di ricerca necessarie alle aziende va di pari passo con il successo nell’inserimento dei laureati nelle occupazioni, e produce enormi vantaggi reciproci: per le università, maggiore visibilità internazionale, opportunità di finanziamenti, iniziative imprenditoriali e brevetti; per le imprese, arricchimento delle competenze, innovazione, allargamento dei mercati.
Il rapporto disegna un legame università-imprese ancora ridotto ma in via di espansione, basato sulle strutture di trasferimento tecnologico: uffici-ponte che ormai quasi tutti gli atenei hanno attivato per curare i rapporti con le aziende e operare insieme nell’elaborazione di progetti e spin-off (nuove aziende nate nell’ambito di attività preesistenti), gestione di brevetti, fino ai cosiddetti “incubatori d’impresa”, organizzazioni a partecipazione mista finalizzate alla creazione di start-up (nuove imprese caratterizzate spesso da fondatori giovani, forte innovazione e tecnologia avanzata). Significativi i numeri del lento ma costante incremento della collaborazione: dal 2004 al 2012 i brevetti concessi ogni anno alle università sono passati da 75 a 201; gli spin-off accreditati dagli atenei nel periodo 2004 – 2010 sono stati 531, e hanno prodotto un fatturato pari a oltre 200 milioni di euro. Una tendenza in crescita, ma ancora ostacolata, secondo il rapporto, dalla scarsezza di risorse e da vincoli normativi che le aziende percepiscono come troppo onerosi.
Molto rilevante anche il “conto terzi”, l’insieme delle attività compiute dagli atenei a favore di soggetti esterni, il cui importo complessivo è cresciuto dai 366 milioni di euro del 2004 ai 515 del 2010. Ma la proiezione all’esterno degli atenei, rileva la Fondazione Crui, non si esaurisce certo con le attività retribuite: il rapporto censisce 12.636 funzioni svolte da 71 università a favore di soggetti esterni, la maggior parte delle quali gratuite (servizi di placement, concessione di spazi, organizzazione di eventi, progetti di utilità pubblica e con finalità didattiche o umanitarie). Insomma, la “terza missione” che l’università è chiamata a compiere (l’apertura a società, territorio e imprese, che si affianca alle tradizionali didattica e ricerca) si articola in attività solo in piccola parte remunerative.
Ampio spazio è offerto dal rapporto al soggetto chiave della relazione atenei-imprese: lo studente. I dati della Fondazione Crui confermano che, in tempi di crisi, la laurea continua a costituire un elemento di forte vantaggio per i giovani che aspirano ad entrare nel mondo del lavoro. Tra il 2008 e il 2012 il tasso di occupazione dei laureati è sceso del 7%, contro il 18% dei diplomati: l’urto della recessione è stato meno traumatico, e i livelli salariali medi aumentano del 50% per chi possiede il titolo superiore. Confortanti i dati più freschi: la domanda di laureati da parte delle imprese nel 2014 è in aumento del 5% rispetto all’anno precedente, mentre è dal 2007 che le imprese hanno progressivamente incrementato la percentuale di laureati sul totale degli assunti, passata dal 9% al 15,9%. Ancora più interessante è il dato sui contratti a tempo indeterminato: ai laureati vengono offerti nel 47% dei rapporti di lavoro, contro una media generale del 36% per la generalità degli altri assunti. Tra le professioni dei laureati più richieste dalle aziende, accanto ai profili tecnici sempre molto ricercati (ingegneri, analisti e progettisti di software, addetti a vendite e marketing, programmatori, operatori sanitari) si assiste al boom dei green jobs, le occupazioni legate all’economia “verde”, come esperti nella gestione dei rifiuti, nella mobilità sostenibile, nell’agricoltura e nelle energie ecologiche, nella gestione del territorio. È questo insieme di laureati quello che per cui c’è la domanda in maggior crescita (+14,1% nel 2014) e per il quale il titolo di studio superiore è più richiesto (il 43,7% del totale degli assunti). Una nota critica è riservata dal rapporto sullo strumento dei contratti di apprendistato. Considerati utilissimi per avviare i giovani al mondo dell’impresa, sono frenati dall’eccesso di burocrazia e dalla scarsa chiarezza normativa, aspetti che uniti alla piccola dimensione tipica delle aziende italiane rendono questo mezzo ancora troppo complicato da scegliere.
Da registrare, infine, una curiosità non priva di conseguenze: c’è una precisa correlazione tra assunzione di neolaureati e titolo di studio posseduto dalla media dei dirigenti. Lo storico ritardo del nostro Paese nell’allargare la percentuale di laureati (nella fascia 30-34 anni siamo al 22% contro il 44% della Francia) si ripercuote direttamente sul grado di istruzione dei manager: in Italia solo il 24% dei dirigenti è laureato (in Francia è il 64%), e più di uno su quattro (il 28% contro il 9% francese) ha terminato solo la scuola dell’obbligo o nemmeno quella; e un capo azienda laureato (qui il rapporto cita uno studio della Banca d’Italia) assume un numero di laureati due volte e mezzo superiore agli assunti da un non laureato. La progressiva formazione di una classe dirigente dotata di titoli di studio elevati, lascia trasparire il rapporto Crui, potrebbe valorizzare un aumento del livello di competenze nel sistema industriale, e quindi una sempre maggiore appetibilità dei laureati. Ma la diffusione del titolo superiore tra i cittadini italiani è un processo di lungo periodo, e l’obbiettivo posto dall’Unione Europea per il 2020 (40% di laureati nella fascia 30-34 anni) è davvero lontano.
Martino Periti