CULTURA

Buongiorno tristezza

“I’m too sad to walk”. E ancora: “Remember the funny movie where the dog died?”, oppure “We could cry until we can’t breathe” tradotto: potremmo continuare a piangere fino a non avere più fiato. Piccola, grassottella e blu. Blu come la malinconia, come lo sconforto. Nel nuovo film d’animazione Disney Pixar, Inside out, tra gioia, paura, rabbia e disgusto - le emozioni che abitano nella testa della undicenne Riley - spunta anche tristezza, creaturina goffa, insicura e (inizialmente) emarginata perché ritenuta una minaccia per la felicità della piccola protagonista. Voce sommessa e atteggiamento vittimista, viene costretta a restare in disparte per non sporcare di blu i bellissimi ricordi della bambina. Passi la rabbia, passino pure la paura e il disgusto (emozioni improvvise e passeggere), ma la tristezza no, quella proprio non si può accettare: la tristezza resta, contagia, si radica e non ti lascia più, spegnendo pian piano l’entusiasmo, la voglia di fare e reagire. Niente di più sbagliato, niente di più falso. A riconoscere il valore della tristezza è la stessa Disney che, da metà cartone animato in poi, ne riabilita il ruolo per dare una degna conclusione alla storia. Per dirla in due parole, ai bambini in sala, arriva questo messaggio: dobbiamo provare anche un po’ di tristezza, accettare e imparare a elaborare gli eventi spiacevoli, per poter attivare una reazione, favorire un cambiamento e godere appieno degli attimi di felicità. 

Senza far riferimenti al film, l’articolo The more you pursue happiness, the faster it runs from you di Zach Stafford, pubblicato a metà settembre su The Guardian, approfondisce il tema partendo proprio dal ridimensionamento del ruolo della felicità nella nostra vita. “Siamo esseri umani complessi, per questo la nostra vasta gamma di emozioni ci deve insegnare a vedere il mondo in maniera più articolata”, sottolinea Stafford. E continua: “La felicità non deve essere l’unica cosa in grado di farci sentire vivi”. La ricerca spasmodica della felicità è insita nella cultura occidentale: se si guarda in particolare a quella americana ci si imbatte persino nel “diritto alla felicità”, citato nella Dichiarazione di indipendenza: “A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”. Sacrosanto, ma la verità è che voler essere felici può rendere infelici. A puntualizzare questo ulteriore aspetto è Iris Mauss, psicologa dell’università di  Berkeley in California, che della questione si è occupata nella ricerca Pursuit of happiness, introducendo una forma di autolesionismo con conseguenze negative sorprendenti: “Lottare per ottenere vantaggi personali – spiega Mauss - può danneggiare le relazioni con gli altri, portando alla solitudine. In Occidente la felicità è solitamente intesa in termini personali ed è un guadagno personale”. E continua: “Spingere sulla ricerca della felicità, potrebbe portare a concentrarsi troppo su se stessi, danneggiando le relazioni sociali”. Ed ecco, dunque, un ulteriore spunto di riflessione, un tema che merita un considerazione a parte perché, a questo punto, si distingue nettamente il vantaggio personale da quello collettivo: può essere che il (troppo) desiderio di essere felici danneggi il benessere sociale? “La felicità è reale solo quando è condivisa”, diceva Christopher McCandless nel film Into the wild. Una lezione, a quanto pare, difficile da recepire. 

Dell’argomento si è interessato, qualche tempo fa, anche Umberto Eco che, sulle pagine de L’Espresso, ha scritto: “L’idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l’infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista”.

Recentemente l’Onu ha stilato una classifica dei Paesi felici. Nel World happiness report 2015 a vincere sono gli svizzeri mentre gli italiani si piazzano solo al 50esimo posto della classifica delle 158 nazioni incluse nell’indagine. Siamo troppo impegnati a cercare la nostra personale felicità per vivere bene in una società felice? Nel report, per valutare il reale grado di felicità, vengono prese in considerazione sei variabili: il Pil pro capite, la speranza di vita (in salute), il sostegno sociale su cui contare nei momenti di difficoltà, l’assenza di corruzione e quindi la fiducia nel governo e nelle imprese, la libertà nel prendere decisioni e la generosità (che si misura in donazioni recenti, a seconda del reddito). Il benessere dipende in larga misura dal comportamento prosociale dei membri della società, un atteggiamento che porta gli individui a decidere e ad agire per il bene comune. “Onestà, benevolenza, cooperazione e affidabilità sembrano essere la chiave per una società felice”.

Francesca Boccaletto

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