SOCIETÀ

Il caso di Pokemon Go, tra realtà aumentata e tecnologie persuasive

Distinguere come in un gioco di specchi tra apparenza e realtà – sostiene il filosofo Salvatore Natoli in Parole della Filosofia o l’arte di meditare – è uno dei leitmotiv della cultura occidentale. Ma non è sempre facile, e tanto meno oggi mentre torme di adulti e adolescenti si spingono fino alle porte del Bo con gli occhi fissi nello smartphone, alla continua ricerca del mostriciattolo più raro. È la moda del momento e per rendersene conto basta sfogliare un giornale qualsiasi, dove – tra olimpiadi, elezioni presidenziali in America e guerre al terrorismo – Pikachu e compagni tengono ormai stabilmente banco.

Non è semplicemente costume: con Pokémon GO per la prima volta la cosiddetta realtà aumentata esce dalla nicchia e diventa un fenomeno di massa. Con che vantaggi, e soprattutto con che rischi, lo chiediamo a Luciano Gamberini, psicologo e direttore dello Human Inspired Technology Research Centre all’università di Padova, da anni al lavoro nel campo delle nuove tecnologie. “In realtà non si tratta di tecnologie nuove – spiega lo studioso al Bo –: la differenza è che queste stavolta escono da ambiti specifici per creare un vero e proprio universo che non è separato, bensì interagisce con la nostra realtà quotidiana”.

In effetti già è possibile da diversi anni ‘arricchire’ la realtà di informazioni o altri elementi, presi per lo più dalla memoria interna dei device o dalla Rete, con applicazioni in vari ambiti: da quello militare a quello turistico. Come per esempio nel progetto CultAR, nato dalla collaborazione di alcune università europee: “L’idea è quella di uno strumento per ‘navigare’ la città, con la possibilità di accedere a informazioni storiche, logistiche e commerciali durante la visita”, spiega Gamberini, al lavoro sul progetto per conto dell’università di Padova. Con una particolarità: “In questo caso abbiamo scommesso soprattutto sugli stimoli di tipo acustico, perché presentano una minore invasività rispetto a quelli di tipo visivo. Abbiamo infatti verificato che l’idea di fare un tour in una città d’arte con gli occhi sempre fissi sul cellulare non è poi così appetibile”. Attenzione però a non chiamarle audio-guide: “Con questo sistema l’utente ha la possibilità di scegliere liberamente percorsi e tempi con l’ausilio di uno speciale guanto, puntando semplicemente il dito sull’oggetto selezionato”. 

Se la realtà aumentata è disponibile da tempo, come mai oggi si sta imponendo al grande pubblico con un videogame, che presto probabilmente sarà replicato in una serie di app simili? Le ragioni, secondo Gamberini, sono complesse e stanno soprattutto nell’intreccio tra geolocalizzazione, marketing e le cosiddette tecnologie persuasive, ovvero capaci di sviluppare empatia negli utenti. “Esattamente 20 anni fa suscitò molto scalpore il fenomeno del Tamagotchi: anche in quel caso c’era un animaletto virtuale da nutrire e coccolare e, pur nella sua semplicità e con una grafica primordiale, il gioco divenne in poco tempo un fenomeno di massa, capace addirittura di creare casi di dipendenza patologica”. 

Il passo successivo, che come oggi attingeva proprio dal popolare franchise dalla Nintendo, fu Pokemon Pikachu Virtual Pet; uscito nel 2000, rappresentava per molti versi l’anello di congiunzione con i videogiochi oggi di successo: “Il meccanismo era in tutto simile a quello del Tamagotchi, con in più un banale contapassi che però costringeva gli utenti a fare movimento per giocare. Eravamo insomma di fronte a una tecnologia che si poneva espressamente l’obiettivo di manipolare il nostro comportamento”.

Ed è così che all’inizio degli anni Duemila in diverse università, compresa quella di Padova, sorgono alcuni gruppi di ricerca che si occupano specificamente delle tecnologie persuasive (supporting behavioral exchange), ad esempio studiando come queste possano essere utilizzate per indirizzare gli utenti verso comportamenti più salutari o sostenibili. Come nel caso del progetto europeo BeAware, svoltosi tra 2008 e il 2010: una sorta di via di mezzo tra gioco e social network, dove diverse famiglie provenienti da realtà e contesti molto diversi (Helsinki, Stoccolma e Catania), sono state chiamate a sfidarsi nell’ambito del risparmio energetico. “Alla fine del progetto abbiamo registrato in media una diminuzione del 18% dell’energia impiegata – spiega Gamberini –: un vero e proprio record per quanto riguarda il risparmio dovuto al solo comportamento umano. E lo stesso si potrebbe fare anche per ridurre lo spreco di acqua e di cibo”.

Il connubio tra aspetto ludico e tecnologia può insomma rivelarsi un potentissimo strumento educativo: tanto più oggi che computer e smartphone ci accompagnano in ogni momento della nostra giornata, diventando anche fisicamente delle estensioni della nostra persona. Ma se queste stesse tecnologie fossero utilizzate per indurre comportamenti casuali o addirittura negativi? Marketing e pubblicità non nascono adesso e con questi strumenti possono diventare ancora più potenti. “Purtroppo è tecnicamente possibile: per questo è ormai sempre più necessario non limitarsi, per le nuove tecnologie, agli aspetti tecnici ma analizzare sempre di più anche quelli etici e sociali. Anche se, nelle nuove tecnologie, lo sviluppo è spesso così veloce e impetuoso da rendere difficile qualsiasi pausa di riflessione”. Come proteggere allora i più giovani? “Un po’ come con la tv o il computer: più che proibire è forse il caso di seguire e accompagnare i ragazzi e gli adolescenti, per prevenire confusioni e fenomeni di addiction”. Per il resto è tardi per opporsi: la rivoluzione è già in atto.

Daniele Mont D’Arpizio

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