SOCIETÀ
“Serviamo il numero 15”: dal dottore come al supermercato
Nel 2010 Tony Steel, medico, si faceva promotore di DrFox, un sito web in cui i pazienti potevano (e possono) ricevere consulenze online e prescrizioni mediche attraverso ricette elettroniche. Una piattaforma simile, DrThom, conta oggi (si legge nella homepage) 350.000 pazienti. Ma la medicina in rete non si limita a questo se si pensa che, oltre ai numerosi “pareri dell’esperto” che trovano spazio in più o meno note riviste online, ogni mese vengono prodotte più di 1000 applicazioni medico-diagnostiche da scaricare sul proprio smarthphone.
Con l’incedere dell’e-doctor, vien da chiedersi dove sia finito il vecchio “dottore”. Quello così magistralmente rappresentato in uno sguardo e in una postura, del medico verso la bambina, nel quadro di Lukes Fildes The doctor al Tate Gallery di Londra. Ma anche di fronte ai moderni Dr. House, “tecnici” altamenti specializzati che guardano alla realtà fisiopatologica della malattia più che al malato, ci si chiede che fine abbia fatto il medico di un tempo che ascoltava, osservava e si prendeva cura del paziente come persona prima che come individuo malato.
Secondo Giorgio Cosmacini, docente di storia della medicina all’università san Raffaele di Milano e autore del libro La scomparsa del dottore. Storia e cronaca di un’estinzione (Raffaello Cortina, 2013), la rivoluzione tecnologica e farmacoterapica iniziata con gli antibiotici, unita alla nascita di una medicina ultraspecialistica, avrebbero contribuito in maniera incisiva ad allentare il rapporto medico-paziente. “Tra la coscienza e sensibilità del medico e quella del malato – sottolineava già nel 1953 Cesare Frugoni il maggior clinico dell’epoca – si interpone il fattore inanimato di innumerevoli strumenti che, mentre sono di immensa utilità pratica agli effetti della diagnosi, diminuiscono fatalmente i contatti fra curanti e pazienti”. Il medico da “curante” diventa “guaritore” e la “visita” si fa “prestazione”. Anche il linguaggio spersonalizza un rapporto che ha iniziato a sfilacciarsi.
Le scarse risorse economico-finanziarie della sanità pubblica spingono i vertici amministrativo-sanitari delle aziende ospedaliere a valutare i medici sulla base dell’efficienza più che della loro reale efficacia, privilegiando in questo modo il far presto più che il far bene. Senza tener conto delle conseguenze per i medici da un lato, spesso impastoiati in impellenze burocratiche e incalzati “da una dirigenza pressante, pressata a sua volta dalla necessità di far quadrare i bilanci aziendali”, e dall’altro per i pazienti insoddisfatti del rapporto con il medico. E che dire dei medici di base che, pur strategici negli ingranaggi del sistema sanitario e depositari di una cultura medica generale, sono percepiti invece come figure di basso profilo: i medici “generici” in opposizione agli specialisti.
“La Costituzione – sottolinea Cosmacini – sancisce il diritto alla salute che tuttavia deve essere inteso non tanto come il diritto alle prestazioni sanitarie, ma come il diritto alla relazione di cura tra medico e paziente”. Il medico deve possedere due requisiti fondamentali, la competenza e la “disponibilità”, perché la medicina è scienza al servizio dell’uomo. L’attività del medico non può limitarsi alla sola tecnica, altrimenti la sua vocazione risulterebbe dimezzata. I medici di un tempo non erano migliori, ma non avendo a disposizione la strumentazione odierna dovevano focalizzarsi maggiormente sul paziente: osservarlo, ascoltarlo, visitarlo attraverso lo sguardo e il contatto che oggi invece è venuto meno.
“Si tratta di un problema culturale – sottolinea l’autore – e devono essere le università, gli ordini dei medici e i vertici politici a farsi promotori di un concetto di salute e cura del paziente che al contrario hanno contribuito ad allentare”. Non si tira indietro Cosmacini quando si tratta di indicare i responsabili e le concause che hanno portato alla “scomparsa del dottore”. Nella sua ottica, le università sono venute meno al proprio compito formativo nella misura in cui dotano lo studente di un bagaglio tecnico-scientifico considerato sufficiente ad affrontare la professione, senza fornire invece gli strumenti con cui poter gestire il rapporto medico-paziente. L’accademia dunque istruisce, ma non educa “alla cura” del malato. Forma un medico competente, ma non disponibile. E se, d’altra parte, la politica sanitaria si caratterizza per inerzia e assenza di interventi riformatori, anche gli Ordini dei medici hanno perso la propria vocazione iniziale. Nati infatti all’inizio del XX secolo per tutelare l’esercizio della professione contro l’abusivismo, avevano anche il ruolo di coscienza sanitaria della nazione. Scienza e “coscienza", fondamento morale dell’etica medica, andavano a braccetto. Si trattava tuttavia di una finalità etico-politica che è venuta meno con il passare degli anni.
“Il medico dell’innovazione – conclude Cosmacini – non può disconoscere la continuità con la tradizione e deve per questo riappropriarsi della dimensione di curante più che di guaritore”.
Monica Panetto