CULTURA

Afghanistan, la scuola in tempo di guerra

Valerio Pellizzari racconta la sua vita di inviato speciale presentando al Festivaletteratura di Mantova il suo libro "In battaglia, quando l'uva è matura", di cui pubblichiamo un estratto per gentile concessione degli editori Laterza.

 

Un bambino di quattro anni dorme beato sul bordo di un ruscello. Riposa su un cuscino di stoffa rosso, appoggiato su un tappeto rosso, affondato nell’erba alta e soffice. I rami e i frutti maturi del gelso offrono ombra e profumo. L’acqua trasparente scivola su una sabbia sottile come la cipria. Tutto sembra in armonia con il mondo di un bambino. La scena ricorda un presepio pagano, o forse ho visto la reincarnazione del piccolo Buddha in questa valle incantata del Badakhshan. Sullo sfondo, donne in abiti colorati e bambini si muovono tra campi di grano già alto e piante di patate, seminate al posto del papavero per seguire le direttive virtuose del governo. Poi, dopo il raccolto, la differenza di guadagno tra le patate più umili e il papavero molto più ambito e redditizio verrà compensata dalle autorità, che però fino ad oggi non hanno mantenuto la promessa.

Il padre solleva il bambino con delicatezza e lo sposta sotto una grande tenda, perché le chiacchiere lì attorno non interrompano quel sonno felice. E intanto un uomo sale sul gelso, lo scuote mentre altri uomini hanno steso un grande lenzuolo adatto alle dimensioni di un letto reale, e lì dentro raccolgono i frutti che cadono. Poi li mettono in un vassoio e con l’acqua trasparente del ruscello li risciacquano. Qui otto secoli fa passò Marco Polo, in viaggio verso la Cina, e qui ancora oggi grandi pecore con grandi corna ricurve portano il suo nome. Da questa valle si entra nel corridoio di Wakhan, quel pezzo di Afghanistan sottile come un dito, stretto tra Tagikistan e Pakistan, che finisce contro il confine cinese in un tratto di pochi chilometri, spezzato da un passo che si apre a cinquemila metri. Si arriva al valico solo dopo giorni di marcia. Da quelle parti, nei momenti di maggior delirio dopo l’11 settembre, qualcuno aveva localizzato Bin Laden.

Ma il ruscello, il bambino, gli uomini che attorno a lui raccolgono silenziosamente la frutta non sono parte di un quadro bucolico staccato dal contesto afgano di tutti i giorni, fuori dal tempo, senza legami con la realtà. Questi attori di un mondo minore, marginale, si muovono a pochi chilometri da Baharak, che ai tempi dell’occupazione sovietica era un’importante base militare, satura di carri armati ed elicotteri con la stella rossa. Oggi è un grosso centro dove transitano i cercatori di pietre preziose, dove i trafficanti di droga coltivano vecchi legami, e dove i predicatori integralisti raccolgono un buon seguito. Qui un’organizzazione privata sta costruendo una scuola femminile, proprio dove il piccolo Buddha sta riposando. Il bambino è il figlio del capo cantiere, gli uomini della frutta sono alcuni muratori e manovali che hanno interrotto il lavoro per organizzare in fretta un rinfresco.

La nuova scuola si aggiungerà alle sessanta che già esistono, e che tutte assieme raccolgono ogni giorno circa quarantamila bambine e ragazze nelle vallate del Badakhshan. Questi edifici godono di una garanzia politica preziosa, come di una extraterritorialità: nessun talebano ha mai fatto un gesto ostile contro le studentesse né contro le aule e i muri che le accolgono. È una immunità quasi miracolosa. L’ostilità ideologica verso le scuole femminili, e spesso la loro distruzione fisica, è stata uno dei dogmi degli studenti islamici. Loro sono qui attorno, molto lontani dai santuari, dalle roccaforti che li ospitano nel Sud del paese. Non si fanno vedere ma controllano i militari tedeschi quando arrivano in ricognizione, dentro i loro automezzi blindati che oscillano paurosamente tra le buche di queste strade dissestate, mentre lambiscono le scarpate, per avvitarsi poi tra curve e cigli franati. Oscillano come succede alle diligenze di legno nei film western quando attraversano i fiumi, inseguite dai banditi o dagli indiani. Questi guerrieri stranieri sono invisibili dietro i grossi vetri corazzati dei loro veicoli, come sono invisibili le cariche esplosive in agguato, mimetizzate senza fatica nella strada di terra e sassi. Le mine li aspettano soprattutto nella valle di Wardoj, dove gli attacchi sono più violenti e insidiosi. Le scuole, invece, sono rimaste intatte, da quando fu costruita la prima nel 2005.

Jan Agha Jaheed è nato qui, è il responsabile di Markopolo, l’organizzazione privata che costruisce le aule. Ha scelto come simbolo tre stelle bianche su fondo azzurro, destinate a portare sulla terra la luce della conoscenza e dell’istruzione. Spiega volentieri perché queste aule non hanno suscitato la furia devastatrice dei talebani in questa parte remota dell’Afghanistan, a differenza di quanto è successo nella regione attorno a Kandahar. Prima di tutto questi sono edifici che ospitano solo classi femminili. Gli studenti islamici, nella loro visione oscurantista dei sessi, condannano soprattutto le scuole miste. Ma questa è una differenza che in Occidente è stata semplificata, trascurata, più comunemente e sbrigativamente si racconta che i seguaci del mullah Omar non vogliono scuole femminili.

Anche la principessa India, figlia di re Amanullah, si è scontrata in passato con l’ostilità ottusa verso le scuole femminili. In un’altra provincia uno di questi edifici era praticamente ultimato, ma i talebani avevano bloccato la costruzione del tetto per rendere inutilizzabili le aule. La discendente del primo re modernizzatore non si lasciò intimidire dal divieto e annunciò pubblicamente che avrebbe dormito in quella costruzione a cielo aperto. Se il freddo della notte avesse intaccato la sua salute gracile di donna anziana, tutti nel villaggio, e poi nella provincia e nel paese, avrebbero saputo chi erano i veri responsabili delle sue future pene fisiche. Il tetto fu realizzato fulmineamente e la scuola finalmente inaugurata.

Le nuove costruzioni nascono con una procedura molto semplice. Tutto inizia quando i responsabili di un villaggio chiedono di avere anche loro una scuola, per allontanarsi dall’isolamento, per salire in qualche modo nella gerarchia sociale. Un paese con l’acqua potabile e il bagno pubblico, con la corrente elettrica, con una rudimentale infermeria, con le aule affidate a un maestro, impara a vivere meglio, ma soprattutto viene ascoltato con maggiore attenzione dal governatore della provincia e dalle autorità a Kabul. E una scuola costruita con il cemento, con le travi di metallo a sostenere il tetto, abbandonando paglia e fango, diventa anche un rifugio per gli abitanti in queste vallate continuamente aggredite da terremoti, dove l’inverno è durissimo.

Markopolo mette tutti i fondi, ma chiede sempre che il terreno sia donato dal villaggio. In genere è un’area pubblica, a volte gli abitanti contribuiscono a comprare la terra per il nuovo edificio con le loro finanze rinsecchite. In ogni caso, l’associazione ingaggia gli abitanti del posto per costruire le aule, li paga per il lavoro che fanno. In passato aiutare a costruire la scuola era un impegno degli uomini in molti villaggi, un contributo collettivo alla misera economia locale, come un servizio di leva obbligatorio. Qui però vengono anche pagati. Alla fine, nonostante i soldi per i materiali e per gli operai siano arrivati da fuori, le persone che hanno donato il terreno e che poi hanno scavato le fondamenta, costruito il muro e il tetto, sistemato il giardino che non esisteva, considerano quella scuola come un’opera pensata e voluta da loro, che appartiene a loro, con una sua identità. Non come le aule offerte dagli eserciti stranieri: decise in uffici lontani, senza ascoltare le necessità e i desideri di quella piccola comunità, date in appalto a imprese legate al circuito della grande corruzione. Doni catapultati lì per una scelta casuale, come le razioni di viveri liofilizzati paracadutati dopo l’11 settembre, che spesso restavano inutilizzati. Gli edifici portati in dono dai governi e dalle truppe straniere sono spesso considerati corpi estranei, e la guerriglia li considera ottusamente obiettivi militari da colpire.

Gli abitanti del villaggio, invece, non permetteranno mai che gli studenti islamici vengano a danneggiare quello che loro hanno realizzato. Altrimenti, tutti insieme, contrasteranno in massa, come è già avvenuto, con urla, sassi, bastoni e armi, i talebani e le loro promesse rinnegate di aiutare la gente comune. Questa è la psicologia e la reazione dei villaggi poveri. E degli afgani più in generale. Come spiegò molto bene quasi un secolo fa Mahmud Tarzi, ministro degli Esteri di Kabul, agli inglesi che chiudevano ingloriosamente la terza guerra afgana: «Se voi costruite moschee d’oro e i musulmani le costruiscono con il fango, loro preferiranno sempre le seconde».

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