SCIENZA E RICERCA
Anoressia e bulimia, in bilico tra genetica e fattori sociali
Foto: Jean Claude Moschetti/Rea/Contrasto
Trecento nuovi casi di anoressia e bulimia ogni anno, circa 6.000 visite in clinica psichiatrica, 1.000 in clinica medica, una quarantina di ricoveri. È la cronaca raccontata dai numeri del Centro regionale per i disturbi del comportamento alimentare, con sede a Padova. A causare le patologie fattori di tipo biologico e genetico da un lato, dall’altro ragioni di ordine psicosociale . Ragioni, queste, che portano Günther Rathner, responsabile del Centro per i disturbi del comportamento alimentare nell’adolescenza di Innsbruck, presente al convegno padovano su anoressia e bulimia, a parlare di “colonizzazione del corpo” e a riflettere sul ruolo del corpo non solo in sé, ma inserito in un contesto sociale. Il controllo dell’immagine diventa fondamentale per controllare l’opinione altrui. Esiste, del resto, una parte di popolazione con un rischio maggiore di sviluppare il disturbo, come le danzatrici, le atlete e le modelle che svolgono attività in cui è importante mantenere il peso basso. Incidono poi fattori di rischio ambientali precoci, che con meccanismi “epigenetici” modificano le traiettorie della crescita fetale: infarti placentari, complicazioni prima, durante e dopo il parto o scarsa nutrizione della madre contribuiscono ad aumentare il rischio di anoressia o bulimia.
Ma le recenti indagini evidenziano che il fattore genetico ha un peso rilevante e spiega oltre il 50% del rischio di ammalarsi di anoressia. Due anni fa una collaborazione tra Università e Regione Veneto ha permesso l’istituzione di una Biobanca veneta per i disturbi alimentari (Bioveda), con il preciso scopo di studiare i fattori genetici che predispongono a questo tipo di patologie. Le ricerche, condotte a livello multicentrico in Veneto e tuttora in corso hanno permesso di prelevare Dna da più di 800 pazienti negli ultimi due anni. “In particolare – spiega Angela Favaro, docente di psichiatria al dipartimento di neuroscienze dell’università di Padova – è stato studiato l’effetto della variante del gene Comt (catecol-O-metiltrasferasi) nei pazienti con anoressia nervosa ed è stato dimostrato un suo ruolo nel determinare atteggiamenti che ostacolano il trattamento nelle fasi acute della malattia. Questa scoperta, se confermata da studi futuri, può avere importanti conseguenze a livello terapeutico perché la presenza di questo polimorfismo potrebbe indicare la necessità di trattamenti farmacologici mirati”.
Recenti studi di neuro-imaging inoltre, condotti a Padova attraverso risonanza magnetica cerebrale sul paziente, permettono di rilevare quali danni anoressia e bulimia rechino al cervello e alle sue funzioni e come vengano modificate le reti cerebrali. Ne è emerso che esiste nelle pazienti una alterazione a livello cerebrale che coinvolge le capacità visive e porta a una percezione del corpo distorta. Ciò che è stato rilevato è un difetto della memoria visiva: le pazienti anoressiche non memorizzano i cambiamenti della loro immagine allo specchio, ma enfatizzano la loro sensazione interiore, continuando a sentirsi grasse anche quando gravemente emaciate.
Nel corso del convegno padovano Angela Favaro ha inoltre presentato i primi risultati di una ricerca, non ancora pubblicata, condotta su 161 pazienti da cui emerge un deficit di empatia nelle pazienti con anoressia in fase acuta, una carenza cioè della capacità di riconoscere le emozioni dell’altro. Questo potrebbe consentire un approccio terapeutico basato sulla riabilitazione cognitiva, anche se la sperimentazione in questo senso non consente ancora di dare delle evidenze sicure. Attualmente nella cura della bulimia si ottengono buoni risultati affiancando il trattamento farmacologico all’intervento cognitivo-comportamentale. Più complessa invece la cura dell’anoressia che richiede la collaborazione tra psichiatri e psicologi da una parte e internisti e nutrizionisti dall’altro, per le complicazioni mediche che questi pazienti possono presentare e che talora possono richiedere anche trattamenti intensivi a livello ospedaliero.
Monica Panetto