SOCIETÀ

Di scacchi, cultura, scuola e altro ancora

Alla fine Magnus Carlsen ce l’ha fatta: ad appena 22 anni il ragazzino prodigio norvegese si è laureato campione del mondo di scacchi imponendosi a Chennai sul precedente detentore, l’indiano Viswanathan Anand. Meglio di lui nella storia soltanto Garry Kasparov, che del resto è anche il suo allenatore. Non tutti però sono contenti: “Penso che sia stato un match completamente sbagliato. 12 partite sono troppo poche, ne servivano almeno 24, come vuole la tradizione”. Non le manda a dire il maestro Antonio Rosino, scacchista di fama nazionale, scrittore e giornalista: “L’obiettivo era di aumentare la cosiddetta spettacolarità, così però si sono scontentati sia i giocatori che il pubblico”.

Su chi tifare il veneziano, maestro Fide, non aveva dubbi: “Conosco personalmente e apprezzo Anand, trovo invece Carlsen antipatico. Un paio di anni fa, in un’intervista sul mensile Torre e cavallo, i suoi apprezzamenti sull’Italia erano pieni dei peggiori topoi in voga nel Nord Europa. Un grande scacchista dovrebbe avere un livello culturale tale da non fargli dire stupidaggini”. Alla fine ha vinto il migliore? “Anand è un giocatore molto brillante, mentre la forza di Carlsen – a dispetto dell’età – non è in un impetuoso gioco di attacco, ma nella capacità di sostenere lunghe guerre di posizione sfruttando anche i vantaggi più impercettibili”.

È un cliché quello che dipinge gli scacchisti come persone quanto meno un po’ ‘originali’, se non proprio bizzarre? “Falso. La storia degli scacchi va in parallelo a quella della cultura. Anche gli scacchi sono passati attraverso l’illuminismo, il romanticismo, il positivismo. Poi all’inizio del Novecento ci sono state le avanguardie, e guarda caso i migliori giocatori vivevano a Vienna, proprio come Freud e Wittgenstein. Una volta i grandi scacchisti erano colti, brillanti anche in altri campi. Come il tedesco Emanuel Lasker ad esempio, matematico, e Michail Botvinnik, il primo campione sovietico e ingegnere di fama”. Anche oggi del resto le qualità logiche di uno scacchista sono apprezzate, come dimostra la storia di Alan Trefler, chess master e manager di un’importante azienda di software. Gli scacchi sono stati anche una passione per molti artisti: “Marcel Duchamp era un campione, tanto da far parte della nazionale francese, mentre Kubrik era solo un simpatico dilettante. La sua regia fu però profondamente influenzata dalla scacchiera”.

Esiste anche una geopolitica degli scacchi? “Questo gioco riflette anche la storia e la politica. La Francia è stato a lungo il paese più importante, poi c’è stata l’ascesa della Gran Bretagna e della Germania. Nella prima metà del Novecento il proscenio è stato dominato dagli Usa, mentre con la fine della seconda guerra mondiale inizia l’egemonia sovietica”. E in Italia? “Negli ultimi anni, in parte grazie a una buona politica della federazione nel settore giovanile e all’ascesa di Fabiano Caruana – nato negli Stati Uniti e attualmente uno dei primi al mondo – siamo diventati una potenza di livello medio, con risultati in ascesa”. Le difficoltà? “La diffusione nel territorio e in parte il gioco on line, che ha in qualche modo danneggiato la struttura dei circoli: i luoghi dove si impara veramente a giocare”. La tecnologia però non ha portato solo guai: “Gli scacchisti sono la categoria non professionale che più usa internet. Quando 50 anni fa ero giovane maestro impiegavo l’80% del mio tempo per documentarmi, studiando le partite dei miei avversari, solo il 20 per giocare. Oggi le proporzioni sono invertite, e questo soprattutto grazie a internet”.

Come è cambiato il gioco in questi anni? “Intanto si è abbassata enormemente l’età in cui si diventa forti: a 21 anni ero il più giovane maestro d’Italia, oggi si è grandi maestri intorno ai 15-16 anni. Per questo le politiche giovanili sono indispensabili: una volta si iniziava a giocare verso gli otto anni, oggi si tende sempre più ad anticipare ai sei”. Gli scacchi sono innanzitutto ideali per algebrizzare i bambini, che hanno poi maggior facilità nel comprendere le astrazioni della matematica e della geometria; sono inoltre un luogo di integrazione per i ragazzi stranieri e tra le generazioni: un lifetime sport, come dicono gli americani, che si gioca dagli 8 agli 80 anni. “Ai giovani poi insegnano la strategia: a ponderare le decisioni, pensando che le azioni possono avere risultati in tempi anche molto lunghi”.

Rosino oggi è in pensione, dopo aver insegnato matematica e fisica al liceo scientifico, ma continua a insegnare e a diffondere nelle scuole la cultura scacchistica. Cosa si dovrebbe fare per promuovere la scacchiera nelle scuole? “In ogni istituto ci dovrebbe essere un club o uno spazio per giocare, come accade ad esempio nel Regno Unito. Lì essere un bravo giocatore può essere anche una referenza importante per entrare nelle scuole più prestigiose. Anche a livello universitario i match più sentiti, tra Oxford e Cambridge, oltre che nel canottaggio sono proprio negli scacchi”.

Daniele Mont D’Arpizio

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