UNIVERSITÀ E SCUOLA

Dottorato, competenza non solo in ambito accademico

Ho letto con molto interesse sulle vostre pagine l’intervento della professoressa Ghedini, con il quale si è aperta un'importante riflessione sul dottorato di ricerca. Mi piacerebbe quindi condividere con voi alcune riflessioni.

Per prima cosa credo sia importante contestualizzare la situazione del dottorato all'interno della più generale questione della formazione e della ricerca nel nostro Paese. Nel 2008 infatti vi è stato un taglio senza precedenti al sistema universitario che, assieme al blocco del turn-over, ha profondamente inciso sulla vita e sulle aspettative dei giovani ricercatori e dei dottorandi. Le stime riportate dall'associazione dei dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi), presentate nell'annuale rapporto sullo stato del dottorato in Italia parlano chiaro: poco più del 7% degli attuali assegnisti potrà in futuro accedere alla posizione di associato, e solo dopo un percorso decennale di contratti precari. Hanno ragione quindi quanti afferma che numericamente le attuali posizioni di dottorato eccedono l'effettiva capacità dell'università di aprire posizioni stabili. 

D’altronde credo che per risolvere questa difficile situazione sia innanzitutto necessario un cambio di rotta da parte del governo, con un orientamento forte e deciso sui temi della ricerca, dei giovani e dell'innovazione. Serve un completo sblocco del turn-over e un ri-finanziamento delle università per dare un futuro ai precari della ricerca, ma soprattutto per non sprecare il capitale umano di un'intera generazione. È certo quindi che il recente provvedimento che ha portato dal 20% al 50% lo sblocco del turn-over sia un'importante inversione di rotta rispetto a quelle che sono state le politiche degli scorsi anni, ma non sembra altrettanto sicuro che sia sufficiente a risolvere i problemi precedentemente creati.

Non mi soffermerò solo su questo punto, anche se rimango convinto che sia il nodo fondamentale da sciogliere in questo momento, e colgo volentieri l’occasione di discutere sul significato del dottorato di ricerca in questa fase storica. Non condivido, lo dirò subito, l’idea che il dottorato debba diventare una formazione professionalizzante, che credo sia compito dei corsi di laurea, almeno in parte, e dei master universitari. Il dottorato nasce invece come formazione alla ricerca e tale deve rimanere. Certo non dobbiamo pensare che tale formazione debba per forza essere finalizzata alla carriera accademica, ma allo stesso tempo non possiamo nemmeno accettare che lo sbocco professionale pensato per un dottorando sia analogo a quello che fino a qualche anno fa era destinato a un laureato magistrale. Le capacità e le professionalità del dottorando dovrebbero invece trovare spazio nell’ambito dell’innovazione e della ricerca anche in aziende ed enti pubblici. D’altra parte il percorso stesso pensato per il dottorando è finalizzato prevalentemente all’attività di ricerca, e se questo non fosse lo scopo principale, allora per quale motivo i dottorandi dovrebbero fare ricerca? Anche il titolo di dottore di ricerca dovrebbe essere valutato come tale, invece che essere considerato alla stregua di tanti diplomi o attestati, come si verifica di continuo nei concorsi pubblici. 

L’uscita dal sistema universitario di tanti giovani competenti, se da un lato deve essere contenuta riaprendo le possibilità di carriera interna, dall’altra è un’occasione per il tessuto sociale e industriale di poter acquisire importanti competenze, per aprire insomma una via di uscita dalla crisi puntando sull’innovazione e non come al solito, sulla riduzione del costo del lavoro. Anche per i dottorati nell’ambito delle scienze umanistiche e sociali – per rimandare all’articolo di Claudio Giunta che ha dato l'avvio a questa riflessione - sarebbe necessario un cambio di approccio. La nuova economia della conoscenza potrebbe essere uno sbocco importante per alcuni di questi dottorati, non solo per realizzare sbocchi occupazionali  alternativi all’accademia, ma anche per costruire quella missione universitaria che ha l’obiettivo di sviluppare il capitale umano e che può farlo anche tramite progetti e investimenti in questo campo. Del resto, come diceva Italo Calvino: “L’atteggiamento scientifico e quello poetico coincidono: entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione”. 

Concordo quindi con la necessità di aprire una riflessione su come cambiare e migliorare il dottorato di ricerca, considerandolo però uno strumento per lo sviluppo di competenze finalizzate alla ricerca e all’innovazione e non come un ulteriore livello di studio al termine del percorso universitario.

Gianluca Pozza

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