UNIVERSITÀ E SCUOLA

Erasmus, l’Italia non ha più appeal

Sono stati pubblicati a metà luglio dalla Commissione europea i dati più recenti sulla mobilità degli studenti e sul programma Erasmus. Nell’anno accademico 2012-2013, quasi 270.000 giovani europei vi hanno partecipato, un nuovo record e un aumento del 6% circa rispetto all’anno precedente. Le destinazioni più popolari sono state, in ordine, la Spagna, la Germania, la Francia e il Regno Unito. Solo quinta l’Italia, che ha ospitato un po’ meno di 20.000 universitari, per altro in leggero calo sul 2011-2012, contro i 30.000 di Germania e Francia e gli oltre 40.000 della Spagna. Il nostro paese ha attratto meno del doppio di studenti stranieri dei tre che lo seguono in classifica, ovvero Svezia, Polonia e Olanda (attestatesi appena sopra i 10.000), tutte nazioni dalle dimensioni decisamente inferiori. 

“Gli ultimi dati mostrano che la distribuzione non è cambiata molto negli ultimi anni – dice Stefano Chessa, professore presso il dipartimento di scienze umanistiche e sociali dell’università di Sassari – In linea generale non c’è dubbio che si può fare meglio”. 

Al di là delle preferenze individuali dei singoli studenti, Chessa identifica tre fattori che, almeno per il momento, rendono l’Italia meno attraente di quanto potrebbe essere altrimenti: la continua arretratezza del paese quanto all’offerta di corsi di studio in lingua inglese; la tendenza della mobilità universitaria a svilupparsi su corridoi culturalmente, e non solo linguisticamente, omogenei - a significare che l’Italia scambia la stragrande parte dei propri studenti internazionali con Spagna e Francia; e il contesto politico-economico con, da un lato, il costo relativamente elevato della vita in Italia e, dall’altro, l’assenza di politiche sociali rivolte agli stranieri altrettanto estese in altri paesi, come ad esempio la Francia, che hanno una storia di più lungo periodo con l’immigrazione.

Sulla questione centrale dell’adozione dell’inglese, l’Italia soffre a questo punto non solo della competizione dei paesi madrelingua e di quelli dell’Europa settentrionale, che da anni ormai hanno strutturato tanti corsi di laurea in questo senso, ma anche di nazioni dell’Est europeo. Citando l’esempio dell’Ungheria, Chessa spiega: “Nel momento in cui l’Ungheria ha sentito l’urgenza di entrare a pieno titolo nella UE, ha investito molto sul piano della internazionalizzazione, di più che i paesi fondatori”. In Italia, nel frattempo, rimane il problema non solo della scarsa competenza linguistica con l’inglese da parte del corpo docente, ma anche di una forte opposizione ideologica a impiegare questa lingua in maniera diffusa, un approccio che si riflette anche nel dibattito sulle pubblicazioni universitarie. 

Le responsabilità rispetto alla prestazione italiana in fatto di mobilità internazionale degli studenti non sono però solo degli atenei. “Le politiche sociali complessive e il carico fiscale hanno un effetto forte”, dice Chessa, in particolare per quei ragazzi che non hanno famiglie in grado di aiutarli e possono contare più o meno solo sui sussidi europei (che si sono aggirati l’anno scorso sui 272 euro al mese di media). Il costo degli affitti italiani, degli alimentari e della vita in generale pesa in particolare su di essi. 

Le tendenze emerse dalle ultime statistiche sull’Erasmus sono confermate anche dai numeri pubblicati recentemente dall’Unesco sulla mobilità mondiale degli studenti. Nel 2012, l’Italia ha ricevuto complessivamente 77.732 giovani stranieri, contro gli oltre 270.000 della Francia e i più di 200.000 della Germania. Ancora una volta il nostro paese sorpassa solo di poco nazioni molto più piccole, ad esempio l’Austria e l’Olanda, entrambe con circa 58.000 studenti.  

Va detto che a livello di singole istituzioni, l’Italia vanta qualche fiore all’occhiello. L’università di Bologna è la quinta in Europa per numero di studenti ospitati, la Sapienza a Roma l’ottava. Questo potrebbe spiegarsi non solo con la qualità delle università in questione ma anche con un altro fenomeno che Chessa definisce la “managerializzazione degli atenei”. Si pensi ad esempio all’enfasi posta sulla competizione tra università e il sempre più diffuso uso dei ranking. Un approccio che, secondo il docente dell’università di Sassari, ha un effetto controproducente, anche se forse indiretto, sulla mobilità degli studenti. “Le destinazioni ambite dai giovani europei finiscono per essere sempre le stesse – conclude Chessa – e questo in parte minaccia la ricchezza che deriverebbe da una mobilità più diffusa”. 

Valentina Pasquali

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