UNIVERSITÀ E SCUOLA

Fisica in inglese? Le ambizioni della scuola poliglotta

Potrebbe essere l’inizio di una piccola rivoluzione: sarà invece, probabilmente, il lento e faticoso avvio di una sperimentazione che potrebbe aprire la scuola italiana a una dimensione più internazionale e competitiva. A settembre debutterà, per gli studenti dell’ultimo anno di licei e istituti tecnici, l’insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica. Significa che nelle classi finali di queste scuole una materia qualunque, come matematica, filosofia o storia dell’arte, potrà essere insegnata in una lingua diversa dall’italiano. Il metodo indicato dal ministero dell’Istruzione è il CLIL, una tecnica ”immersiva” che prevede l’insegnamento di una lingua utilizzandola come mezzo per impartire insegnamenti in altre discipline. Non è una novità assoluta per la scuola italiana: il CLIL è già adottato da alcuni anni nei licei linguistici, dove è possibile insegnare fino a due discipline in lingua straniera a partire dalla terza classe. Ora il ministero, con una nota inviata pochi giorni fa ai dirigenti scolastici, amplia grandemente il numero di istituti ai quali raccomanda di avviare il programma.

L’obiettivo ministeriale è arrivare a insegnare il 50% del monte ore annuale della materia prescelta in una lingua diversa dall’italiano: mentre per gli istituti tecnici si specifica che deve trattarsi dell’inglese, per i licei è lasciata libertà di scelta. Ma quali sono gli insegnanti che possono candidarsi per tenere lezioni secondo il metodo CLIL, e come verranno formati? La normativa obbliga le scuole ad avvalersi di docenti compresi nell’organico vigente. Per ottenere la “patente” di insegnante CLIL è necessario frequentare un corso di perfezionamento tenuto da uno degli atenei individuati da Indire, l’ente di ricerca cui è affidato il coordinamento degli aspetti formativi. Possono candidarsi gli insegnanti assunti a tempo indeterminato e quelli con contratti a termine ma abilitati e inseriti nelle graduatorie ad esaurimento. Inoltre i docenti devono possedere una certificazione nella lingua straniera di interesse rilasciata da un ente riconosciuto: il livello richiesto è il C1 del Quadro comune europeo di riferimento (è ammesso anche il B2, purché il docente stia frequentando un corso per accedere al livello C1). Quanto alla selezione, sono gli organi direttivi delle singole scuole (dirigenti scolastici in primis) a stabilire i criteri per segnalare i docenti che desiderano iscriversi: spetterà poi all’Ufficio scolastico regionale l’ultima scrematura e il raccordo con Indire per l’organizzazione dei corsi, che frutteranno 20 crediti formativi universitari. Una procedura, come si vede, piuttosto complicata e frammentata tra molti soggetti, che rischia di richiedere tempi lunghi rispetto ai numeri in gioco, per tacere del problema delle risorse rispetto alla richiesta: due anni fa per i licei linguistici furono attivati corsi per 900 docenti a fronte delle 16.000 candidature pervenute. Del resto le indicazioni del ministero sono chiare: la sperimentazione è su base volontaria, e i livelli quantitativi per le classi quinte (50% delle ore annuali di una disciplina da impartire in lingua straniera) sono solo “suggeriti”, e definiti “l’obiettivo verso cui tendere”.

Quanto ai requisiti dei docenti, la stessa nota li ammorbidisce rispetto al criterio generale, spiegando che “moduli parziali” potranno essere sperimentati da docenti “impegnati nei percorsi di formazione per acquisire il livello B2”, quindi attualmente in possesso del B1 (competenza linguistica di chi, recitano gli schemi ufficiali, è in grado di “produrre un testo semplice relativo ad argomenti che siano familiari o di interesse personale”). Insomma, lo stesso Miur sembra consapevole che il progetto troverà un’applicazione estremamente graduale e diluita: “le attività di formazione”, riconosce la nota, “richiederanno più anni per far acquisire ad un ampio numero di docenti i risultati formativi richiesti”. Venendo al non semplice inserimento delle ore CLIL all’interno dell’orario scolastico, è lo stesso ministero a suggerire un escamotage: dal momento che i corsi di formazione per i docenti prevedono un tirocinio di 50 ore, il Miur considererà il tirocinio, se svolto presso licei o istituti tecnici, equivalente a ore di insegnamento CLIL vere e proprie. 

Di fronte a una sperimentazione così morbida, dilatata nel tempo e facoltativa, appare quindi piuttosto ambiziosa la parte prescrittiva della nota ministeriale. Viene infatti previsto che, a partire dall’anno scolastico entrante, l’esame di maturità nei licei e istituti tecnici debba “valorizzare il lavoro svolto” sulla disciplina appresa in lingua straniera. In particolare, saranno la terza prova scritta e l’orale le fasi in cui l’insegnamento CLIL dovrà essere verificato. Il terzo scritto dovrà tener conto “della modalità con cui l’insegnamento è stato attivato”, frase oscura che indica una correlazione tra le ore CLIL tenute nell’ultimo anno e i contenuti del documento con cui il consiglio di classe, entro il 15 maggio, elabora i criteri per lo svolgimento della prova. Quanto all’orale, il colloquio “potrà” accertare “anche in lingua straniera” le competenze disciplinari acquisite, ma solo qualora il docente CLIL faccia parte della commissione d’esame come componente interno. Infine, nel caso in cui la materia insegnata in lingua straniera costituisca l’oggetto del secondo scritto di maturità, la nota chiarisce che la prova dovrà essere necessariamente tenuta in italiano.

Come valutare un piano di respiro così ampio rispetto ai tanti limiti che vengono posti alla sua concretizzazione? Il rischio è quello di introdurre nel sistema scolastico elementi fortemente innovativi in assenza di risorse in grado di supportarne la diffusione oltre qualche piccolo gruppo di istituti pilota. Spetterà al ministero dimostrare che l’epoca di sperimentazioni permanenti, tutte immagine e scarse di risultati, non è destinata a proseguire.

Martino Periti

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