CULTURA

Gli internati militari di Hitler: prigionieri e senza diritti

Riapre una pagina poco nota ma importante della seconda guerra mondiale, quella dei campi di prigionia in cui finirono i soldati italiani dopo l'8 settembre 1943, la mostra Resistere senz'armi in corso in questi giorni a Venezia per iniziativa dell'Iveser, l'Istituto veneziano di storia della resistenza e della società contemporanea. Al centro dell'attenzione è la vicenda degli Imi, Italienische Militär-Internierte (internati militari italiani). Hitler in persona aveva disposto, il 20 settembre, il loro passaggio da prigionieri a internati per poterne disporre ad arbitrio e come misura punitiva per il "tradimento" italiano. In tal modo si negava infatti loro lo status di "prigionieri di guerra" e gli obblighi che ne derivano secondo la Convenzione di Ginevra: era esclusa l'assistenza della Croce rossa, né sussistevano più vincoli di alcun genere riguardo le condizioni di detenzione, il trattamento, l'impiego. Un vero e proprio "limbo" giuridico che fu sfruttato in pieno per usare come forza lavoro, in turni massacranti e nelle mansioni più pesanti, i prigionieri. Con sempre più uomini sotto le armi nel tentativo di rovesciare le sorti di una guerra irrimediabilmente persa, dopo Stalingrado ed el Alamein, la Germania aveva disperatamente bisogno di manodopera; centinaia di migliaia di italiani si aggiunsero così ai milioni di "lavoratori schiavi" del Reich, appena un gradino al di sopra dell'"annientamento tramite il lavoro" riservato a ebrei, zingari e prigionieri russi.

Complessivamente, erano stati fra i 900.000 e il milione (sui circa 2 milioni sotto le armi) i soldati italiani disarmati e catturati all'indomani dell'armistizio. Al netto delle fughe, degli uccisi nelle rappresaglie o nei combattimenti e delle adesioni alla RSI furono circa 710.000 i militari avviati alla prigionia, in Germania e Polonia soprattutto. A più riprese il governo repubblichino offrì loro la possibilità di rientrare in Italia se avessero giurato fedeltà a Mussolini, ma furono in pochi ad accettare: circa 50.000, e di questi molti disertarono. Più di 650.000 militari invece, la grandissima maggioranza, sopportarono condizioni di vita sempre più dure senza cedere: una vera e propria "altra resistenza", come fu definita, numericamente e moralmente importantissima, che privò la repubblica di Salò di una forza rilevante e di un fattore di legittimazione cruciale. Più di nove soldati su dieci, e oltre i tre quarti degli ufficiali, verso i quali le pressioni erano fortissime, rifiutarono ogni collaborazione. Oltre 60.000 di loro avrebbero pagato con la vita per le esecuzioni, lo sfinimento, il freddo e la fame.

"Sandbostel. Autunno 1944. Finite le operazioni del bagno, delle perquisizioni, i nuovi passeggiano nel loro settore, senza potersi avvicinare a noi. Una guardia, con la sua brava maschera antigas li sorveglia da lontano." (foto e testimonianza di Vittorio Vialli)

Nella mostra, inizialmente allestita in occasione della giornata della Memoria e ora trasferita alla Casa della memoria a villa Hériot alla Giudecca, l'odissea drammatica degli internati è raccontata sia nel suo insieme che attraverso alcune vicende individuali. Una puntuale ricostruzione storica, affidata ad una serie di pannelli di sintesi dei principali aspetti, si affianca alla testimonianza di lettere, fotografie, disegni e documenti originali, rarissimi e spesso presentati qui per la prima volta al pubblico, che evocano la vita quotidiana e gli stenti passati. Le speranze, la paura, la fame e la solidarietà, l'ostinazione e anche l'ironia con cui lottavano per sopravvivere. La mostra è infatti pensata come un racconto fruibile su più livelli, con un'attenzione speciale per i ragazzi delle scuole e la capacità di coinvolgerli. Punto d'incontro ideale, 13 "totem", colonne triangolari alte come un uomo che portano le fotografie, e le storie, di altrettanti deportati.

Storie che rimangono impresse. Il marinaio che dal primo giorno decide di condurre all'interno della sua prigionia una personale resistenza senza armi, o l'ufficiale che prende congedo dal fascismo rifiutando il rientro come soldato della RSI e liberandosi così la coscienza. Il soldato che soccombe alla brutalità delle punizioni e del lavoro forzato e quello che, fuggito, viene nascosto assieme ad altri da una donna tedesca con la quale si scriverà, dopo la guerra, la lettera che leggiamo. Le fotografie scattate da un capitano con una macchina nascosta e la radio costruita con gli scarti, smontata e rimontata continuamente per sottrarla alle perquisizioni; il giornalino di fortuna su cui scriveva anche Guareschi o gli incontri nei quali, con la pancia disperatamente vuota e stretti gli uni agli altri per il freddo, si discuteva di democrazia e dittatura e si tenevano lezioni di filosofia con Enzo Paci, anche lui fra i detenuti, per preparare un domani diverso e migliore. Tutti tasselli di un'unica vicenda che l'esposizione vuole resistuire nella sua molteplicità.

Colpiscono, fra tutte, le parole del soldato che, dopo l'interminabile viaggio nei carri piombati e una marcia nella neve e nel freddo, di fronte alle torrette e al filo spinato annota "non avevo mai visto un campo di concentramento", o le lettere nelle quali emergono da pochi accenni gli "altri" oltre il filo spinato, gli ebrei la cui condizione, nonostante le privazioni terribili, si intuisce tanto più spaventosa. Su una parete, quasi nascosto, conclude idealmente il percorso il grande pannello che porta in lettere chiare su fondo scuro il nome dei più di 3000 deportati di Venezia e provincia. Un'immagine che ricorda la semplicità delle assi di legno ingrigite dal tempo cui sono affidati i nomi degli ebrei veneziani vittime della Shoah al Ghetto; scabra ed essenziale ma dal grande potere evocativo. Capace di attrarre lo sguardo e assieme di imporre una zona di rispetto davanti a sé.

Veneziani i nomi elencati così come veneziani sono, in maggioranza, i protagonisti delle "colonne": all'origine della mostra c'è infatti il lascito all'Iveser, nel 2008, dell'archivio della sezione cittadina dell'ANRP, l'Associazione Reduci dalla Prigionia e dall’Internamento. Migliaia e migliaia di "schede" personali, in alcuni casi ricchissime, che l'istituto ha informatizzato e presentato al pubblico nel 2012. Da quel momento è iniziato, soprattutto grazie ai social network, un passaparola che ha permesso all'Iveser di diventare collettore di tutta una serie di testimonianze conservate soprattutto in archivi familiari, approfondendo la documentazione e arricchendola ulteriormente. Un interesse che si è confermato durante la mostra, con diversi visitatori giunti a prendere contatto con l'istituto per cercare informazioni su padri o nonni e per offrire documenti e memorie di famiglia. A dimostrazione di quanto questa vicenda, a lungo semidimenticata, sia sentita, rappresenti un elemento importante nella storia del nostro Paese e abbia bisogno di un riconoscimento pubblico. Prossimo progetto, una mostra nazionale a partire da questo primo "nucleo" e dal materiale che vien evia via scoperto. Se, naturalmente, si troveranno i fondi.

Michele Ravagnolo

"Fallingbostel. 16 Aprile 1945. La foto ha fissato il momento molto significativo per tutti gli I.M.I. del capovolgimento della situazione nel nostro piccolo mondo: alla liberazione degli italiani, succede l’inizio della prigionia delle guardie tedesche. I vecchietti della territoriale fanno i bagagli; gli I.M.I. guardano o sembrano disinteressarsi. Nessun cenno ostile, nemmeno di sfottitura che a dire il vero sarebbe anche comprensibile." (foto e testimonianza di Vittorio Vialli)

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