UNIVERSITÀ E SCUOLA

Harvard spende il 44% dei fondi di tutte le università italiane

Pubblichiamo l’estratto di un articolo di Roars con una comparazione tra le spese dell’università di Harvard e i fondi a disposizione degli atenei italiani. Con una domanda di fondo: come mai il sistema universitario italiano non compare mai nei ranking internazionali se non dopo il centesimo posto?

Prima di meravigliarci perché nessun ateneo italiano entra nei primi cento, diamo un’occhiata cosa spende ogni anno l’Università di Harvard che di norma occupa le prime posizioni di queste classifiche internazionali (i dati sono in migliaia di dollari).

Ora, vediamo invece cosa vale il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) stanziato per per i 66 atenei che compongono il sistema universitario statale.

I conti sono presto fatti: le spese Harvard ammontano al 44% dell’intero Fondo di finanziamento ordinario italiano di cui beneficiano 66 atenei statali. In altre parole, il finanziamento pubblico dell’intero sistema universitario statale italiano basterebbe a coprire i costi annuali di poco più di due atenei simili ad Harvard. Per semplicità, non abbiamo conteggiato le tasse degli studenti italiani, ma la sproporzione tra le risorse impegnate dall’ateneo statunitense e quelle a disposizione dei singoli atenei italiani rimane comunque enorme.

Per qualche ragione, questa disparità di mezzi viene quasi sempre ignorata quando si caldeggiano riforme radicali al fine di gareggiare con gli atenei superstar. Sarebbe interessante mettere di fianco al Fondo di finanziamento ordinario italiano la somma dei costi dei primi 66 atenei di una qualsiasi classifica  internazionale: sarebbe il modo per spiegare quanto costa la formazione superiore nelle nazioni che vogliamo prendere a modello ed anche quanto siano campati per aria gli argomenti di chi crede di trovare in quelle classifiche le dimostrazione scientifica del fallimento del sistema universitario italiano.

I ranking sono essenzialmente strumenti di marketing, dei quali gli atenei cominciano a non poter fare più a meno, perché i piazzamenti influenzano il numero di immatricolazione e la visibilità delle sedi. Ma sono e restano strumenti di marketing senza alcuna valenza scientifica.

Immaginare federazioni di atenei o comunque poli di sedi che cooperino fra di loro potrebbe anche essere un’idea sensata. Se ne è discusso recentemente in Francia. Ma l’assetto del sistema dell’università e della ricerca deve mirare alla formazione, alla qualità della ricerca, alle ricadute sul territorio. Non ai piazzamenti nei rankings internazionali. Parliamo di cose concrete, lasciamo stare gli strumenti retorici.

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