CULTURA

I manoscritti ritrovati di Verga

Non credo possa dirsi diversamente se non felicità mentale lo stato di chi, sfogliando una edizione critica, assiste al farsi di un capolavoro assoluto come I Malavoglia attraverso schemi, abbozzi, piani di lavoro, frammenti, cataloghi di proverbi e, infine, attraverso correzioni e varianti. 

Lo stato degli scartafacci e dei manoscritti verghiani è molto precario e in continuo divenire. Molte delle carte del grande scrittore siciliano sono disperse, parte dei manoscritti è incompleta e amputata, presente solo sotto forma di microfilm o in mano a privati; cosa, questa, da non biasimare in sé, se non quando il possesso privato diventa occultamento o esagerata speculazione economica - o almeno questa era la tesi di Contini, espressa in un rabdomantico saggio sulla filologia proustiana. È del 2013, tra l'altro, un consistente sequestro di carte verghiane effettuato dai carabinieri, che stavano per essere vendute all’asta a Pavia (è stato ritrovato, fra le altre cose, anche l’autografo del primo romanzo del sedicenne Verga), e si aggiungano al corpus degli scritti le ulteriori acquisizioni di lettere ai familiari, gran parte inedite, pubblicate nel 2011 da Giuseppe Savoca e Antonio Di Silvestro dell’Università di Catania. 

Ferruccio Cecco ha riproposto e perfezionato ora, per Interlinea, l’edizione critica dei Malavoglia, dopo l’edizione pubblicata dal Polifilo nel 1995, mostrando con il materiale a disposizione la storia interna del romanzo – a partire da quella cellula in espansione che saranno i primi abbozzi del Padron ‘Ntoni del 1874. Una storia che non è solo interna: non si comprenderebbero i Malavoglia, infatti, senza il turning point del 1877-78, costituito da testi come Fantasticheria, dalle novelle di Vita dei campi, ma anche dalla lettura decisiva dell’Assommoir di Zola. 

Per Cecco l’editio princeps edita da Treves nel 1881 rimane quella di riferimento, anche se confrontata e corretta sull’autografo dei Malavoglia – il manoscritto A – per i molti refusi presenti; la prima edizione Treves registrerà inoltre cospicue correzioni e aggiunte d’autore effettuate sulle bozze di stampa che, come è noto, mancano alla storia filologica dei Malavoglia (si ricordi, per esempio, l’importantissima aggiunta della sequenza finale della partenza di ‘Ntoni, assente nel manoscritto A).

Cecco ha lavorato su due livelli per la sua edizione critica: da un lato, infatti, ricostruisce in fondo al volume il materiale genetico del gran romanzo; dall’altro, in calce al testo, riporta l’apparato delle varianti ma anche la segnalazione e le correzioni dei refusi che comparvero nell’edizione Treves. Storia interessante, questa. 

Dei Malavoglia Treves fece poi altre edizioni, e in quella del 1907 non molto seguita da Verga, corresse i refusi residui dell’edizione del 1881 ma altri se ne aggiunsero. Ma, cosa ben più importante, in questa edizione normalizzò, in maniera assolutamente impropria, l’interpunzione del romanzo. L'editore cercava in questo modo di mettere la sordina alla inaudita sintassi verghiana, che si fondava sulla transizione senza segnaletica, o comunque minima, tra discorso indiretto libero e discorso diretto. Risultava così compromessa e meno leggibile una scelta stilistica precisa di Verga, necessaria per raggiungere quegli effetti di concertato che, senza l’ingombro di un narratore esterno, meglio potevano rappresentare quell’universo di voci, di chiacchiere e di commenti che costituivano la comunità di Acitrezza, quasi l'autore intendesse procedere per agglomerati verbali senza soluzione di continuità.

La lezione filologica dovrà allora ricostituire il testo conforme alle intenzioni dell’autore e, allo stesso tempo, seguire sia il divenire della scrittura, come l’approssimazione alla resa di impersonalità verista, sia quello ideologico dello scrittore nelle oscillazioni di prospettiva e nelle soluzioni finali raggiunte. Cecco, infatti, ci mostra come lo sviluppo dei Malavoglia andasse nella direzione innovatrice, e irripetibile, di dare voce ai personaggi, lasciandoli parlare senza mediazioni visibili: dall’interno del loro orizzonte, potremmo dire. Una correzione emblematica, per esempio, è la seguente: nel primo capitolo del manoscritto A, i piedi grandi di ‘Ntoni sono paragonati al "David di Michelangelo" ma, nell’edizione 1881, i piedi sono grandi come "pale di ficodindia". Il paragone con il David scompare perché sentito come troppo letterario e troppo colto in bocca ai pescatori di Trezza e al narratore anonimo e popolare che raccorda le loro vicende. Ma potremmo anche seguire le vicende onomastiche del romanzo: nel caso del cognome della famiglia protagonista si passa dal corrivo "Pappafave" a "Toscano", e soprattutto è splendida la trouvaille  finale del nomignolo "Malavoglia".

Si assiste in Verga a un processo di erosione del proprio punto di vista di letterato borghese in favore di un'immersione nella cultura e nell’antropologia di una comunità siciliana e di una povera famiglia di pescatori. Verga non scopre la “plebe”, piuttosto cerca di darle una lingua non mistificata, mediata solo dallo stile della scrittura. Una sorta di italiano parlato, che non voleva scadere nella marginalità dialettale ma che intendeva conservarne, tuttavia, il ritmo profondo, l’ossatura segreta, una sorta di eco radioattiva rilasciata in una sintassi memorabile e artificiale. Si trattava di restituire quelle genti con i loro caratteri propri; in fondo, era quasi averli di fronte, messivi faccia a faccia, senza nessuna presentazione, come Verga scriverà a Capuana. E qualche decennio più tardi il socialista Pelizza da Volpedo ci presenterà come fossero vivi e di fronte a noi i braccianti de Il Quarto Stato, con un gesto analogo anche se certo in una prospettiva opposta a quella dei Malavoglia.

Il romanzo verghiano è il primo romanzo che inaugura una demistificazione della mitologia risorgimentale. A un certo punto la somma di catastrofi che colpiscono l’universo arcaico e preindustriale dei Malavoglia, per quanto tutte storicamente plausibili, si fa soffocante e senza uscita, e sembra che le parole più adeguate per nominare l’ingiustizia necessaria della storia e della "fiumana del progresso" (prefazione ai Malavoglia) siano quelle di fato e destino. 

Sebastiano Leotta

 

Giovanni Verga, I Malavoglia, edizione critica a cura di Ferruccio Cecco, Interlinea, Novara 2014

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