SOCIETÀ

Il lato oscuro del boom indiano

Quando Claudio Colangelo e Paolo Bosusco furono rapiti da un gruppo maoista nell’Orissa, all’inizio del 2012, a un tratto molti italiani si accorsero che in India, sotto la percezione diffusa di una sorta di “gigante buono” (in contrapposizione alla minaccia cinese) in realtà covava da anni un conflitto interno strisciante. Uno scontro tra chi coglie i benefici del recente boom economico e chi invece ne è rimasto escluso. Parte proprio da questo episodio Marina Forti per il suo viaggio alla scoperta dei movimenti maoisti e “resistenti” del Subcontinente nel suo Il cuore di tenebra dell’India. Inferno sotto il miracolo.

Nel 2012, dopo anni di crescita a due cifre, l’economia indiana si è fermata a un +6,9%: una cifra che farebbe l’invidia dell’Europa e persino degli Stati Uniti, ma che nasconde un paese ancora in larga parte arretrato, con una speranza di vita inferiore di oltre 15 anni rispetto all’Occidente e un’elevata mortalità infantile. Una società dove comunque oggi la nuova religione è la crescita, nella speranza di affrancarsi da secoli di povertà. Chi paga però il prezzo? Finora soprattutto i più poveri, costretti per poche rupie a turni di lavoro massacranti, in condizioni ambientali e igieniche spesso precarie o addirittura disastrose.

Poi ci sono i dalit, i fuoricasta, e le cosiddette popolazioni tribali: gli adivasi (letteralmente “abitanti delle origini”). Categorie entrambe tutelate dalla costituzione indiana, ma che fatalmente continuano a essere vittime di discriminazioni e di esclusione sociale. I non appartenenti al sistema delle caste (un tempo detti “intoccabili”) e le etnie tribali nel 2001 assommavano rispettivamente al 16,2% e all’8,2% della popolazione indiana: oltre 250 milioni di persone in fondo a tutte le statistiche interne su reddito pro capite e istruzione. In particolare le tribù native sono state il bersaglio di un imponente spostamento di popolazione, incoraggiato e voluto dal governo e dalle lobbies che lo influenzano. L’obiettivo: lo sfruttamento delle immense risorse forestali e minerarie delle aree da loro tradizionalmente abitate che, assieme alle “zone economiche speciali”, rappresentano una delle basi su cui poggia la crescita di questi anni.

Questa situazione però ha portato negli anni all’insorgere e al rafforzarsi di movimenti di resistenza anche violenta, solo in parte generati dall’adesione al marxismo rivoluzionario. I primi sono stati i Naxaliti –  che prendono il nome dalla rivolta contadina avvenuta nel 1967 nel villaggio di Naxalbari nel Darjeeling, Bengala occidentale. Un nome che ha le sue radici nel concetto di guerra di popolo, e che oggi è divenuto praticamente sinonimo di ribelle “maoista”, designando una galassia di sigle e di realtà di resistenza più o meno armata. Un fenomeno di cui si è occupata anche Arundhati Roy nel suo ultimo In marcia con i ribelli.

“Il problema è lo ‘sviluppo’, arrivato in quelle regioni sotto forma di grandi progetti, miniere, acciaierie o dighe, quindi grandi requisizioni di terre, foreste abbattute, e masse di persone costrette a sfollare”, racconta a Marina Forti Aditya Nigam, ricercatore del Centre for the study of developing societies di Nuova Delhi. Mentre una volta si pensava che le rivolte scoppiassero perché non c’era lo sviluppo, oggi appare invece sempre più chiaro che è proprio lo sviluppo a essere il problema: ovvero il modello di sviluppo scelto, basato su grandi opere senza le adeguate ricadute per la popolazione dal punto sociale e di servizi.

Come ha reagito l’India di fronte al crescente disagio da parte della popolazione nativa? La risposta del governo fin qui è stata soprattutto militare – il premier Manmohan Singh ha parlato dei guerriglieri maoisti come della “massima minaccia alla sicurezza interna dell’India” – tramite l’operazione Green Hunt (“caccia verde”). Puntare tutto sull’uso della forza si è però rivelato controproducente: il 6 aprile 2010 i ribelli hanno annientato un’unità della polizia speciale nel distretto di Dantewada, nella zona del Chintalnar: 76 agenti uccisi, con un’enorme risonanza anche a livello internazionale. Il Ground Zero dell’India, come è stato chiamato dai giornali.

Oggi rispetto a qualche anno fa appaiono sempre più chiari i limiti di una risposta basata solo sul ristabilimento dell’ordine. L’India del 2013 non solo è sempre più importante dal punto vista di vista economico e geopolitico, ma rappresenta anche – con tutti i suoi limiti – un modello politico federale e democratico alternativo a quello autocratico del suo storico rivale, la Cina. Il continuare orgogliosamente a proclamarsi come “la più grande democrazia al mondo” impone anche degli obblighi e dei compromessi, e di questo sembrano sempre più rendersi conto anche a Nuova Delhi.

Daniele Mont D’Arpizio

Marina Forti, Il cuore di tenebra dell’India. Inferno sotto il miracolo. Bruno Mondadori 2012

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