SOCIETÀ

Il New York Times è bello, ma i click calano

Con l’inatteso licenziamento del direttore Jill Abramson la settimana scorsa, il New York Times è passato per una volta dal riportare le notizie alla posizione assai più scomoda di esserne il protagonista. Nel feroce botta e risposta che ha fatto seguito sugli altri media americani alla notizia della partenza di Abramson, sono emersi dettagli interessanti non solo sul difficile rapporto tra quest’ultima e l’editore Arthur Sulzberger, ma anche sulle difficoltà che il Times continua a incontrare nel tentativo di incorporare il web nella propria identità di storico quotidiano cartaceo e di espandere la propria presenza online per competere con successo con rivali vecchi e nuovi, questi ultimi tutti digitali e dai nomi quali Buzzfeed, Vox e Business Insider. 

In particolare, ha fatto scalpore un rapporto di 96 pagine interno al Times, di cui si è impossessato proprio Buzzfeed, che l’ha subito ripubblicato in versione quasi integrale (qui la versione definitiva poi postata da Mashable). I nuovi siti di informazione “sono avanti a noi nello sviluppo di impressionanti sistemi per sostenere i giornalisti digitali e la distanza è destinata a crescere a meno che non miglioriamo rapidamente le nostre capacità”, avverte la task force del Times guidata da A.G. Sulzberger (figlio dell’editore) e incaricata di questo “rapporto sull’innovazione”. “Nel frattempo, il nostro vantaggio giornalistico si sta restringendo giacché questi nuovi media continuano ad ampliare le redazioni”. Il documento critica quelle attitudini culturali che sono residuo dell’epoca d’oro della stampa ma rappresentano oggi un ostacolo alla sua modernizzazione: soprattutto l’ossessione per la prima pagina, o Page One, percepita ancora da redattori e reporter come l’unica destinazione che conta per un articolo e una firma. Infine, il rapporto rivela che i click sulla home page di newyorktimes.com sono crollati del 50% negli ultimi anni, fenomeno dovuto in parte al fatto che sempre più utenti accedono al sito attraverso social media come Facebook e Twitter, approdando direttamente sui pezzi desiderati. Questa scoperta ha convinto più di un commentatore a parlare, in maniera forse un po’ esagerata, della “morte della homepage”. 

Dato il riaccendersi del dibattito sul futuro del giornalismo grazie alla vicenda New York Times- Abramson, è quanto mai tempestiva la pubblicazione, a fine aprile, di un volume di circa trecento pagine che racconta, nello stile dell’etnografia, le tensioni tra il cartaceo e il digitale all’interno della redazione più importante al mondo. Il libro, intitolato “Making News at the New York Times” e leggibile gratuitamente online, è opera di Nikki Usher, della School of Media and Public Affairs di George Washington University a Washington DC, la quale ha avuto, a inizio 2010, l’opportunità di passare cinque mesi nella nuova imponente sede del Times a Times Square. 

“Con notizie che si sviluppavano 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, il Times cercava [nel 2010] di produrre e mettere online un flusso rapido di contenuti, sperando comunque di definire l’agenda e avere l’ultima parola [attraverso il cartaceo]”, scrive Usher nel proprio studio, scorrevole e aneddotico, anche se a tratti un po’ ripetitivo. “In pratica, la strategia impiegata dalla principale organizzazione giornalistica nazionale nel 2010 aveva un po’ il sapore del buffet di un casino di Las Vegas, con redattori, dirigenti e giornalisti che tentavano di garantire che il Times offrisse tutto a tutti”. 

Sono tre i nodi di particolare tensione tra le diverse parti della redazione identificati da Usher: immediatezza, interattività e partecipazione. Su ognuno di questi pilastri del passaggio dal cartaceo al multimediale, si scontrano concezioni vecchie e nuove del fare giornalismo, con i protagonisti del settore che si battono per definire, ognuno a proprio modo, il significato di questi “valori emergenti” e ancora “contesi”. 

“L’immediatezza è sempre stata parte del riportare le notizie, dall’Europa rinascimentale al presente: il diffonderle quanto più velocemente possibile sulla base delle tecnologie a disposizione”, spiega Usher. “Nel caso di un quotidiano cartaceo contemporaneo, immediatezza vuole dire le notizie di oggi pubblicate domani”. Non per il web, però, dove immediatezza significa il qui e ora, la trasmissione in tempo reale. Al Times, che vuole fare entrambe le cose altrettanto bene, si sviluppa quindi inevitabilmente uno “scontro culturale”, con i responsabili del cartaceo attenti a un ciclo produttivo di ventiquattro ore e con obiettivo un prodotto capace di durare “per sempre”, e i responsabili del web desiderosi di mettere i contenuti subito a disposizione del pubblico, anche in maniera incompleta, talvolta sbagliata. 

Schiacciati tra queste esigenze contrapposte sono i giornalisti, il cui numero non è aumentato per far fronte all’accresciuta mole di lavoro, ma anzi si è ridotto pesantemente negli ultimi decenni. Come ci dice il più recente rapporto sullo stato dei media americani pubblicato dal Pew Research Center, il numero di professionisti impiegati a tempo pieno nei quotidiani è sceso del 6,4% nel 2012 rispetto all’anno precedente e del 33,2% rispetto al picco del 1989.  

Usher osserva alcune di queste strane creature, le sue cavie da laboratorio, da vicino, descrivendone la giornata tipo e paragonandole a “criceti sulla ruota”, piegati sulle proprie scrivanie, occhi fissi sugli schermi di computer e telefono sempre in mano per aggiornare più volte in una giornata una storia per l’online mentre concepiscono anche l’articolo più approfondito che deve apparire il giorno dopo sul cartaceo e che, in fin dei conti, è quello che ancora fa e distrugge carriere. 

Le altre due assi di cui tratta “Making News at the New York Times”, interattività e partecipazione, mettono ulteriore pressione sulla redazione: online non vuole dire infatti solo contenuti scritti aggiuntivi, ma anche video, interviste, grafici, animazioni, dietro-le-quinte, che obbligano il reporter a interrompere continuamente il flusso della propria giornata per coordinare il lavoro con nuovi e sempre più numerosi team di producer, operatori video ed esperti di dati. Infine, i social media richiedono maggiore partecipazione da parte dei giornalisti, che in teoria dovrebbero interagire continuamente con i propri lettori, colleghi e fonti. 

L’evoluzione del New York Times e del giornalismo è proseguita anche dopo il 2010 e continua tuttora. La situazione rimane fluida e, come scrive la studiosa di George Washington University, piena di “ambiguità”. Concludendo con un tocco di ottimismo, Usher nota però che questo non deve essere per forza visto in termini negativi, anche se la tentazione è forte: “Il fatto che l’organizzazione non sappia cosa aspettarsi, e nemmeno cosa fare, è stato tra i fattori che penso abbiano fatto del Times un posto stimolante da cui osservare come sta prendendo forma il futuro del giornalismo”.

Valentina Pasquali

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