CULTURA

I Serious Game a scuola, nell’era dei nativi digitali

Lo diceva Linus Pauling, il chimico due volte premio Nobel (per la sua disciplina e per la pace): la prima lettura per lo scienziato che vuole interrogare il futuro e intuire quali sono le piste della ricerca più promettenti deve essere lo Scientific American, la rivista di divulgazione divenuta la più importante del pianeta  perché induce i maggiori esperti al mondo in ogni campo del sapere a illustrare cosa bolle nella pentola  delle loro discipline, in modo che ogni lettore si faccia un’idea e i più creativi provino ad anticipare i tempi. Ebbene, proprio con un articolo sullo Scientific American, Alan Gershenfeld ci spiega Why gaming could be the future of education: perché il (video)gioco potrebbe essere il futuro dell’educazione.

A bollire nella pentola della pedagogia, dunque, ci sono i serious games: i giochi seri da prendere molto sul serio. E non solo perché – come Il Bo ha già rilevato – sono un nuovo strumento che consente alla “mente simulante” che è in ciascuno di noi ad apprendere e “capire il mondo” divertendosi. Ma anche e soprattutto perché sono destinati a diventare – come sostengono gli psicologi della comunicazione Luigi Anolli e  Fabrizia Mantovani, in un loro recente libro, Come funziona la nostra mente. Apprendimento, simulazione e Serious Games – lo strumento principale per apprendere nel futuro prossimo venturo.

Già oggi il menu dei serious games è vasto e variegato. Ci sono giochi prevalentemente ludici, come Total War. Rome, che negli ultimi mesi ha avuto una seconda edizione aggiornata, in cui tuttavia si è immersi nella storia romana, da quella repubblicana a quella imperiale (e la si apprende). Il gioco non consente solo di imparare la storia divertendosi, ma mette alla prova la  capacità di elaborare un pensiero strategico, tenendo conto delle infinite variabili in gioco (appunto). E ci sono giochi con prevalente finalità educative: è il caso di PR:EPARe (Positive relationships: eliminating coercion and pressure in adolescent relationships) un gioco finanziato dal britannico Health Innovation and Education Cluster (Hiec) for West Midlands (South), che si propone di insegnare il rispetto di sé e degli altri. Questo serious game  è stato creato dal gruppo di ricerca Studies in adolescent sexual health (Sash) diretto dalla psicologa Katherine Brown in collaborazione col Serious Games Institute (Sgi) diretto dall’ingegnere Sylvester Arnab. Per non parlare, poi, delle vere e proprie simulazioni in ambienti virtuali che preparano schiere di piloti, militari, ingegneri, medici e anche sociologi.

La verità è che viviamo in un mondo sempre più interconnesso e, dunque, caratterizzato da quella che Italo Calvino definiva una complessità opaca crescente. E abbiamo bisogno di sempre nuovi strumenti per tentare di penetrarla, questa realtà sempre più complessa che evolve seguendo traiettorie non lineari. In cui il futuro non è già scritto, ma può giungere all’appuntamento con il tempo in maniera certo spiegabile aposteriori ma pressoché impossibile da prevedere apriori. Per interrogare il futuro, dunque, abbiamo bisogno di una “mente simulante”, capace di costruire scenari e navigarci dentro per scegliere i più desiderabili.

Ora, sostengono i fautori della nuova pedagogia fondata (anche) sulle piattaforme digitali, il nostro vecchio modo di apprendere a scuola, con la sua logica lineare, con le sue didattiche fondate sulla “trasmissione” del sapere, con i suoi strumenti poco interattivi, con le sue certezze deterministiche (e incontestabili) non ci aiuta più. Dobbiamo trasformarla, la nostra scuola. Dobbiamo innervarla di serious games, di luoghi e occasioni dove allenare le giovani “menti simulanti”.

Abbiamo un vantaggio. I serious games sono uno strumento che si adatta bene – quasi alla perfezione – alle menti dei nostri ragazzi, nativi digitali: menti “zapping”, capaci in un istante di saltare da una dimensione all’altra, e “multitasking”, capaci di gestire, nel medesimo tempo, più azioni, di navigare nel medesimo tempo in diverse dimensioni. Menti che magari non sono più capaci di seguire lunghi percorsi lineari e coerenti, ma abili a raccogliere tanti piccoli frammenti di tanti diversi percorsi e a ricomporli in un ordito organico. Menti, quelle dei nativi digitali, che pensano in maniera diversa da quelle della nostra generazione di immigrati digitali.

Se tutto questo è vero, ne consegue che non sono i serious games e tutte le altre diavolerie elettroniche che, calati dall’alto, stanno modificando (qualcuno ancora pensa “stanno deviando”) le menti dei nostri ragazzi. Ma, al contrario: sono le “ menti nuove ” dei nostri ragazzi, i nativi digitali, che vivendo in un nuovo ambiente cognitivo, chiedono nuovi strumenti per penetrarne l’opaca complessità. Ovvero, per comprenderlo.

Se la “mente nuova dell’imperatore” è questa, occorre che la scuola non si limiti ad accogliere le tecnologie digitali, compresi i serious games. Ma riveda i suoi fondamenti didattici. Elabori una “didattica simulante”. Come? Nessuno ha una ricetta. E forse una ricetta, categoria della e dalla logica lineare, semplicemente non e può esistere. In una “scuola simulante” anche la didattica assume una dimensione dinamica e storica, ovvero  evolutiva. Senza voler assumere un atteggiamento normativo, ma solo propositivo (simulante, appunto) possiamo iniziare a costruire la nuova didattica seguendo due suggestioni offerte da Anolli e Mantovani.

Nella vecchia scuola di noi, immigrati digitali, tutto era chiaro: c’era il giusto e c’era l’errore. Il giusto veniva premiato, l’errore sottolineato (magari con una bella riga rossa o blu) e punito. Nella “scuola simulante” non può esserci nulla di tutto ciò. L’apprendimento avviene – come nei serious games, come nella vita reale – “per prova ed errore”. L’errore è parte integrante e co-essenziale dell’apprendimento. Anzi l’apprendimento altro non è che la progressiva acquisizione della consapevolezza dell’errore: proprio come avviene nel gioco dei bambini.

Ancora: un altro elemento presente nella scuola tradizionale e che dovremo abbandonare è la gradualità. L’apprendimento “passin passino”. Nel nuovo universo cognitivo del nativo digitale si impone un altro principio, quello del “tutto e subito”. Ovvero la necessità e la capacità di apprendere quando serve: al “momento giusto”.

Ultimo, ma non ultimo. La scuola tradizionale, ci ricordano Anolli e Mantovani, si fonda (si fondava?) su una triade: l’insegnamento (la lezione), l’assimilazione (lo studio) e la valutazione (interrogazione o compito in classe). Questa triade si sviluppa (si sviluppava?) secondo tempi ben scanditi e ben separati: a tappe. Per i nativi digitali insegnamento, assimilazione e valutazione avvengono in sincrono e formano un unicum didattico inestricabile.

In definitiva: l’universo cognitivo dei nativi digitali è come un serious game. E la scuola deve accettare di giocarlo o restarne fuori.

Pietro Greco

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