SOCIETÀ

Italia-Usa: pareggio a fondo classifica

Se l’Italia ha fatto una brutta figura nel primo rapporto Ocse sulle “competenze” lavorative e intellettuali degli adulti nel mondo occidentale, anche gli Stati Uniti hanno di che preoccuparsi riguardo ai risultati. Gli americani, giovani e meno giovani, viaggiano infatti verso il fondo della classifica per quanto riguarda le conoscenze matematiche e informatiche e si comportano appena meglio, posizionandosi alla metà del ranking, nella comprensione dei testi.

“Visti questi dati, viene da chiedersi, se siamo così stupidi come facciamo a essere così ricchi?”, nota Anthony Carnevale, direttore del Center on Education and the Workforce della Georgetown University a Washington. Secondo Carnevale, il segreto dell’economia americana sta, o perlomeno è stato in passato, nell’alto livello di preparazione dei lavoratori al top della piramide sociale e economica, e nelle dimensioni del Paese. Fino a che l’America ha dovuto competere con la Germania o il Giappone, gli è bastato affidarsi, grazie a una popolazione molto maggiore, al miglior 5% della propria forza lavoro per rimanere in testa: un esercito di eccellenze difficile da replicare per rivali semplicemente meno popolosi.

“Questo modello oggi è a rischio – continua Carnevale – perché gli Stati Uniti si trovano improvvisamente a competere con paesi enormi come la Cina e l’India, e quindi il vantaggio dato dalle nostre dimensioni sta venendo meno”. 

A sostenere ancora per qualche tempo il primato americano rimane la grande flessibilità dell’economia a stelle e strisce, il fatto che gli Stati Uniti utilizzano le proprie risorse umane e di capitale in maniera molto più efficiente di chiunque altro. Ma anche questa prerogativa comincia a vacillare. “Da sempre, il fattore che ha reso tollerabile il livello di competizione che esiste nel nostro spietato sistema economico è la mobilità verso alto”, dice Carnevale. In pratica, se gli americani accettano, rispetto ai colleghi europei e asiatici, livelli maggiori di ineguaglianza economica e un agonismo implacabile sul posto di lavoro, è perché, storicamente, anche chi si trovava in fondo alla scala sociale aveva ottime possibilità di migliorare la propria posizione. È questa la filosofia del sogno americano; quella che, tra l’altro, ha contribuito a attrarre verso le sponde degli Stati Uniti decine di milioni di immigrati con pochi soldi ma grandi ambizioni. 

Ma da un po' di tempo la mobilità sociale e economica in America è in grande declino, avendo subito un colpo molto duro nella recessione degli ultimi anni. Il problema, sostiene Carnevale, è acuito dal fatto che la scuola pubblica, finanziata da tasse locali e quindi di qualità enormemente differente nei quartieri ricchi e in quelli poveri, nelle zone più urbanizzate e nelle aree rurali o periferiche non è mai stata un grande motore di riequilibrio delle possibilità tra le classi sociali, e sempre più finisce per rinforzare le posizioni di partenza degli individui che vi passano.

Attenzione però ad addossare tutte le responsabilità alla scuola, avverte Peter Cappelli, Direttore del Center for Human Resources della Wharton School of Business presso la University of Pennsylvania a Philadelphia. “In altre indagini sulle performance degli studenti in giro per il mondo, gli Stati Uniti si comportano molto meglio che in questo studio dell’Ocse. Questo significa che succede qualcosa dopo che i giovani lasciano la scuola, o meglio: che qualcosa, come la formazione adeguata e l’aggiornamento della forza lavoro, non succede”. 

Cappelli è l’autore di un libro del 2012 intitolato Why Good People Can’t Get Jobs?, in cui si demistifica la leggenda di quello che qui in America si chiama “skills gap”, ovvero la difficoltà incontrata dalle aziende nell’assumere dipendenti qualificati nonostante l’alto tasso di disoccupazione. Difficoltà dovuta, secondo esperti e manager, al fatto che i lavoratori non hanno le competenze necessarie al mercato del lavoro odierno – una tesi che anche in Italia viene spesso proposta.

“Quando una persona dice di non riuscire a trovare qualcosa nel mercato – per esempio l’automobile dei desideri – questo dipende in gran parte da quello che è disposta a pagare e, contemporaneamente, dalle sue pretese – osserva Cappelli – I datori di lavoro negli Stati Uniti vogliono qualcuno che non ha bisogno di essere formato, che ha già fatto in passato il lavoro richiesto, e però non vogliono pagarlo più di tanto”. 

Se la scuola non fornisce più il bagaglio di conoscenze necessario, e le aziende si rifiutano di formare la forza lavoro (e pure di compensarla adeguatamente), chi si occuperà d’ora in avanti di preparare gli americani per le sfide del futuro? A questo punto, la risposta a questa domanda non è per nulla chiara.

Valentina Pasquali

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