UNIVERSITÀ E SCUOLA

La bolla delle università private sta per scoppiare

Oltre a spazzare via giganti della finanza come Lehman Brothers e Bear Stearns, insieme alle case di milioni di americani, la Grande Recessione iniziata nel 2008 sta travolgendo anche un’altra vittima: le piccole università private, le quali non hanno il prestigio e le risorse finanziarie di colossi come Harvard, Princeton e Yale, ma, fino a qualche tempo fa, erano riuscite a fare tornare i conti lo stesso. Ora, secondo uno studio di Clayton Christensen della Harvard Business School, circa 2.000 università americane potrebbero fallire nei prossimi 15 anni.

Midway College in Kentucky, per esempio, ha sofferto un calo delle iscrizioni del 18% nell’anno accademico 2013-2014 e ha quindi licenziato una dozzina dei suoi 54 professori. Martin University, un college prevalentemente afroamericano di Indianapolis, ha accolto soltanto 522 studenti alla ripresa delle lezioni in autunno anziché i 700 previsti, perdendoci circa 600.000 dollari. Le dirigenze hanno reagito eliminando 16 posti di lavoro tra corpo docente e posizioni amministrative. E Pine Manor, un college tutto al femminile in Massachusetts, ha deciso quest’anno di aprire anche agli uomini nella speranza di riempire i propri dormitori, capaci di accomodare 600 studentesse ma riempiti solo dalle 300 iscritte.

Storie del genere si stanno moltiplicando in ogni angolo del Paese. Il sito web di informazione specializzata InsideHigherEd ha raccolto qui le più significative per l’anno accademico in corso. “Sono tante le piccole università americane che stanno affrontando una situazione di crisi”, dice Susan Fitzgerald, un’analista nella divisione Istruzione e Non-Profit di Moody's Investors Service. Così come delle economie nazionali, Moody’s fa il rating anche dei college, e tra il 2008 e il 2013 ha proceduto con il downgrading di una media di 28 istituti all’anno, più del doppio di prima.

Tra le cause di questa emergenza finanziaria vi è innanzitutto un dato demografico, un calo complessivo nel numero dei ragazzi che si diplomano dalle scuole superiori, numero che ha raggiunto un picco nel 2011 ma che si prevede sarà stabile o leggermente in calo almeno fino al 2024. Secondo dati del governo federale analizzati dal Wall Street Journal, tra il 2010 e il 2012 più di un quarto di college non-profit privati hanno visto i propri nuovi iscritti diminuire del 10%.

Questo fenomeno è accentuato da due fattori sociali ed economici ancora più fondamentali. Prima di tutto il “premio” all’istruzione universitaria sul mercato del lavoro: chi è laureato è stato meno colpito dalla disoccupazione e dalla stagnazione dei salari. Questo ha permesso al costo di una laurea di salire continuamente nel corso degli ultimi 30 anni a causa dell’avidità dei college privati, un’industria sovvenzionata da generose politiche pubbliche, come borse di studio e prestiti a condizioni favorevoli, volte a convincere i diplomati di scuola superiore a perseguire negli studi universitari, nonostante il loro costo.

Il risultato di queste politiche è che, complessivamente, il debito studentesco in America ha superato ormai i mille miliardi di dollari e che, alimentate dai soldi dei contribuenti, che sovvenzionano in questo modo le università, le tasse d’iscrizione sono andate alle stelle. Non solo alla Columbia University o al Massachusetts Institute of Technology, ma anche al ben più piccolo Spring Hill College a Mobile, in Alabama, un istituto fondato nel lontano 1830 dove un titolo di studio quadriennale costa 170.000 dollari. Di conseguenza, si è improvvisamente rivalutata oggi l’offerta degli istituti pubblici, che permettono ai propri studenti di risparmiare decine se non centinaia di migliaia di dollari su quelli privati.

Inoltre, se durante la recessione tanti neo-diplomati incerti sul proprio futuro hanno trovato rifugio per qualche anno almeno in un’aula universitaria, l’economia oggi in ripresa offre di nuovo un’alternativa ai diciottenni e diciannovenni che non hanno tanta voglia di studiare, anche se i laureati continuano a essere avvantaggiati quanto a tasso di disoccupazione e reddito da lavoro. Oggi, ancora scossi dalla recessione, i giovani americani stanno facendo attenzione al peso del debito da contrarre per laurearsi, che graverà su tutta la loro vita lavorativa.

Infine, l’avvento delle piattaforme di insegnamento online come i MOOC (Massive Online Open Courses) – che garantiscono maggiore flessibilità di orari e prezzi più bassi, se non addirittura nulli, e sono quindi attraenti in particolare per gli studenti lavoratori e con famiglia – sta rivoluzionando il mondo accademico, ma le università di dimensioni più piccole stanno facendo molta fatica ad adattarsi a questa nuova realtà.

“Molti dei college in questione non hanno tante riserve finanziarie e operano di anno in anno con un budget che dipende dagli incassi dei mesi precedenti – spiega Fitzgerald – Le tasse di iscrizione spesso rappresentano l’80% delle entrate e di conseguenza l’inabilità di attirare un numero sufficiente di studenti genera difficoltà immediate”. 

Uno studio pubblicato nell’estate del 2013 da ricercatori di Venderbilt University in Nashville, cittadina del Tennessee famosa soprattutto come centro nazionale della musica country, e ripreso di recente in un articolo su Bloomberg, ha calcolato che tra il 2008 e il 2011 il numero di college privati che hanno chiuso o sono stati acquistati dai rivali è raddoppiato dai cinque ai dieci all’anno.

La preoccupazione degli esperti è che si sia innescato un meccanismo da cui sarà difficile uscire, un circolo vizioso che farà sempre più vittime. Nel 2012 la società di consulenza Bain ha analizzato i record finanziari di 1.700 università e college americani arrivando alla conclusione che un terzo di essi si trova su una traiettoria “insostenibile”. Fitzgerald illustra questa death spiral annunciata: “I college che non hanno tante riserve finanziarie e che si trovano improvvisamente di fronte a una crisi sono obbligati a tagliare le spese, riducendo il numero di professori e di personale amministrativo, diminuendo i salari e posticipando gli investimenti nelle infrastrutture, ma questo genere di interventi li rende meno competitivi, provocando un ulteriore calo delle iscrizioni, che a sua volta porta a nuovi tagli, ed ecco che comincia la spirale della morte”.

Valentina Pasquali

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