SOCIETÀ

La crisi? Ci può cambiare in meglio, forse

La crisi ci sta cambiando? Sì: in meglio. Ne è convinto Antonio Galdo, giornalista e scrittore che nel suo ultimo libro, L'egoismo è finito (Einaudi, 2013), prova a delineare le caratteristiche salienti di una trasformazione appena iniziata, ma già visibile. Una mutazione non necessariamente contingente: quello che per l'autore va prendendo forma, e che il libro indaga raccontando capitolo dopo capitolo storie di collaborazione e di sostegno reciproco in Italia e all'estero, è il passaggio ad un nuovo modo di vivere in società, una diversa declinazione del "sentimento" collettivo. Una "nuova civiltà dello stare assieme" – così il sottotitolo – che ha dalla sua due grandi forze: la capacità di ritrovare, dopo un lungo oblio, facoltà e caratteri (solidarietà, responsabilità reciproca, senso di comunità) profondamente radicati nella nostra storia collettiva, e quella di riscoprire la dimensione condivisa della felicità, per troppo tempo lasciata ai margini.

L'obiettivo del libro è duplice: da un lato, mostrare, attraverso una serie di esperienze positive, che la solidarietà sta tornando e funziona; dall'altra suggerire, per contrasto, quanto sia il peso dell'iperindividualismo dei passati decenni nelle difficoltà attuali. A lungo abbiamo pensato, dice Galdo, che la felicità fosse individuale, che stesse nella libertà dagli altri, nel privato e nel singolare. Gli altri erano l'inferno, per noi, come nel celebre aforisma di Sartre, e la realizzazione era personale, esclusiva, legata all'ego e alla capacità di nutrirlo con oggetti, consumi, status symbol. Un meccanismo che a un certo punto è imploso. "Non si può essere felici da soli", ammoniva già Aristotele; e da soli non si può neppure far funzionare una società a lungo, aggiunge l'autore.

Con pazienza e passione Galdo va a cercare "buone pratiche" che hanno dimostrato di stare sulle loro gambe grazie al vantaggio collettivo che possono realizzare, non al volontarismo di pochi idealisti. Esempi che funzionano, e proprio perché funzionano ci dicono, con le loro caratteristiche comuni, quello che non sta funzionando nella società attuale, per differenza.

Ecco, allora, la mobilità ciclabile di Ferrara e l'esperienza, che da Londra ha fatto proseliti, di Salvaciclisti, o la scoperta dello shared space di Zurigo, l'urbanistica innovativa che si affida alla condivisione, e non alla separazione, delle diverse forme di traffico, dai pedoni alle auto ai tram. Gli orti comunitari, il co-housing e i condomini green, il palazzo di Torino ristrutturato in collaborazione dai suoi futuri inquilini e l'architettura gentile di Wang Shu, che nella Cina del boom economico ritrova la dimensione storica, e di comunità, dell'abitare. Il nuovo quartiere di Vauban, a Friburgo, dagli spazi collettivi in cui le funzioni – servizi, asilo, mercato bio a chilometro zero – si alternano, energeticamente indipendente grazie alla tecnologia e al lavoro solidale degli abitanti, che raccolgono biomassa dal vicino bosco tenedolo pulito. O le biblioteche che rinascono come spazi al servizio delle comunità e capaci di ricomporre legami sociali, il ritorno del baratto – materiale e immateriale (vedi file sharing) – dopo la sbornia consumistica, e il risparmio –condivisione in esperienze come le banche on line di passaggi in auto. E, ancora, esempi attuali e storici di solidarietà nei posti di lavoro. Di aziende, dai dirigenti agli operai, che ragionano e agiscono come comunità; di welfare e di sostegno reciproco nei momenti di difficoltà.

Dalle storie narrate traspare una diagnosi precisa sulle ragioni profonde della crisi: l'insostenibilità di un benessere basato sul moltiplicarsi delle pulsioni individuali, sulla semplice accumulazione, su – in una parola – l'egoismo assunto a motore della società. Per alcuni decenni abbiamo rinunciato a quella insostituibile fonte di energia collettiva che è la comunità, e per un po' abbiamo sostituito l'assenza di mani disposte ad aiutarci e di reti pronte a sostenerci con una maggiore ricchezza; poi, è venuta meno anche quella, e non c'è da sorprendersi. Più soli, siamo più lontani fra noi, e quindi più fragili: una fragilità che si è estesa all'intera società.

Da questo punto di vista la ricerca di Antonio Galdo si inserisce in un solco ancora minoritario, ma in crescita. La domanda sulla felicità, con la dimensione collettiva e di condivisione che vi viene associata, è entrata negli studi economici da tempo. Un filone che per l'Italia viene da Olivetti e dagli studi di economisti sociali come Zamagni, ricordato nel libro, e approda oggi ai rapporti dell'Istat, che con il Cnel ha sviluppato il Bes, un insieme di strumenti per misurare il benessere e la felicità diffusa nella società integrando i semplici dati economici, sempre meno in grado di rendere conto delle trasformazioni in atto. E si può guardare anche all'Index of better life dell'Ocse, così come ai lavori della commissione Stiglitz; ma anche definizioni come "beni comuni" o "era della condivisione" testimoniano di un progressivo cambiamento di approccio.

Ma se sotto questo aspetto, che nell'economia del libro costituisce un secondo livello di lettura, il libro si può dire riuscito, non è così per il suo obiettivo fondamentale, la dimostrazione che "l'egoismo è finito", che la crisi sia davvero "l'impietoso detonatore di un cambio d'epoca".  Le storie che l'autore compone senza enfasi, quasi inavvertitamente e affidandosi alla loro semplice forza di persuasione rimangono al fondo una serie di esempi di solidarietà riuscita che non sembrano ancora fare massa critica. La decrescita che l'Istat testimonia ormai da molti anni è ancora ben lontana dall'essere "felice", ovvero riscoperta della solidarietà in nome del "meno, e meglio".

Rivelatore, a questo proposito, l'ancoraggio storico che l'autore propone, con la "company town" di Valdagno e il welfare interno al gruppo tessile Marzotto. Una storia che può essere letta – come fa Galdo – come paradigmatica di una condivisione di valore nell'impresa che si fa idea forte di comunità. Ma anche, e con ragioni altrettanto fondate – come hanno fatto diversi storici sociali – come esempio di paternalismo aziendale, storia di conflitti negati e infine esplosi, come testimonia l'episodio, celebre, dell'abbattimento da parte degli operai in sciopero della statua del fondatore posta di fronte allo stabilimento, nel 1968.

Senza poi dimenticare che tutti i casi studiati per quanto suggestivi non possono però nascondere il dato strutturale che viviamo in una società di mercato dove, in un certo senso, l'egoismo è condizione necessaria (benché non sufficiente) delle dinamiche di scambio. Adam Smith aveva correttamente indicato, già due secoli e mezzo fa, che non è facendo appello al buon cuore dell'oste che otterremo una cena. La società dei consumi continuamente eccede nel fare del denaro l'unico metro di misura della vita, e questo crea reazioni positive, anticorpi che fanno abbassare la febbre e rendono meno brutali le relazioni sociali. Ma resta una società dei consumi, non della condivisione e della solidarietà.

Se non provano che ci sia l'invocato "cambio di paradigma", pure le storie raccontate da Galdo mostrano che esperienze di cooperazione e di riscoperta della comunità ci sono e funzionano. Indicano anche delle possibili linee di evoluzione della nostra società e della nostra economia, oltre la strettoia nella quale ci troviamo? Forse.

Michele Ravagnolo

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