CULTURA

La fabbrica-lager e le sue vittime

Una storia privata che diventa collettiva. Che racconta di una fabbrica ‘nemica’, la Breda Fucine di Sesto San Giovanni, e di un killer lento e silenzioso, l’amianto, per troppo tempo sconosciutoLa fabbrica del panico (Feltrinelli), premio Campiello Opera Prima, è il primo libro di Stefano Valenti. Un romanzo potente che è, prima di tutto, un pezzo di vita vera. La morte del padre dell’autore, per esposizione alle polveri di amianto,si moltiplica e si ripropone uguale. Con la stessa sofferenza e lo stesso sconcerto, la malattia stravolge l’esistenza di tanti altri operai e delle loro famiglie. “Ho voluto narrare in parallelo attacchi di panico e organizzazione concentrazionaria della fabbrica. Paura, gesti ripetitivi, sudore, calore, vergogna, testa china. Perché in fabbrica è necessario obbedire a logiche di autostima interne all’organizzazione verticale e non è possibile manifestare l’individualità”.

Iniziamo dal ‘panico’ che, nel libro, incrocia due vite: quella di tuo padre e la tua. 

Il panico del titolo è un dolore a più facce, una nevrosi ereditata dal padre e la resa a uno straziante disordine che opprime il figlio, il narratore, un lavoratore a termine che vive di collaborazioni occasionali e traduce dal francese nel chiuso di un microappartamento a Milano.

La narrazione autobiografica inizia con la descrizione di una crisi: il respiro affannoso, la vergogna, la vertigine, i tremori, l’angoscia di non dominare un corpo fuori sincrono. Una condizione filtrata da una coscienza precaria, dalla solitudine innaturale della città evanescente ed estranea e da un malessere cronicizzato, interpretazione contemporanea dei rischi del lavoro e del non-lavoro.

Il panico è il contrappunto della condizione operaia. L'alienazione. Quella del padre, che aveva vissuto la fabbrica come una condanna, soffrendo il rumore, il caldo, la paura di non farcela, rovesciando infine l’antica strategia dei poveri, l'accettazione della propria condizione.

Da metà libro in poi non racconti più solo la vicenda di tuo padre e della tua famiglia, ma quella di tante altre famiglie che hai incontrato prima e durante il processo ai dirigenti della Breda Fucine. Come hai deciso di procedere per poter ricostruire i fatti? Quanto è durato e, soprattutto, quanto ti è costato questo lavoro? 

Volevo raccontare la storia di mio padre, la storia di un uomo fuggito dalla fabbrica per diventare quello che aveva sempre voluto essere, un pittore. Volevo renderla collettiva, affiancarla a storie di altri uomini segnati come lui dalla fabbrica. Quando ho conosciuto il Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio di Sesto San Giovanni ho capito che l’alter ego di mio padre doveva essere Giambattista Tagarelli, operaio al reparto aste della Breda Fucine dal 1973 al 1988, co-fondatore del comitato, ucciso dall’amianto. Il protagonista del romanzo nasce dunque dalla fusione di queste due rappresentative figure della classe operaia. 

Il processo di scrittura è stato lungo, è durato circa quattro anni, ed è cresciuto nutrendosi del mondo che raccontavo. Ma è stato un processo liberatorio, calmante. Una potente forma di autoanalisi.

"La fabbrica è una condanna senza reato". Senza sconti e senza filtri, ne esce un girone infernale. 

Mio padre è stato operaio. Negli anni Cinquanta ha lavorato in Breda. Quando sono nato per lui la fabbrica era un ricordo, un ricordo indelebile, presente nei suoi quadri, nella pittura praticata con la stessa energia, gli stessi orari, le stesse scarse risorse della fabbrica. Un ricordo che tornava a vivere in occasione di cene, camminate, durante le quali raccontava con tristezza la gioventù che se n'era andata in fabbrica. 

Diceva mio padre che in reparto era vietato introdurre giornali, riviste, libri, radio, cibo, bottiglie, sigarette. Era vietato mangiare, bere, era vietato fumare. Diceva che era vietato parlare, che in reparto era vietato distrarsi, voltarsi, sedersi. Era vietato fermarsi, assentarsi senza permesso, senza una richiesta di sostituzione. E che era vietato recarsi in bagno senza l’assenso del caporeparto. E a mangiare, tutti in fila ordinata. Entravano in mensa accalcati, non prima di avere ricevuto l’ordine dalle guardie, come una mandria ben ordinata e incalzata da uomini in divisa che ricalcavano l’ordine gerarchico del reparto. Era compito delle guardie decidere chi dovesse entrare in mensa e quando, e – senza ragione manifesta – era compito delle guardie favorire alcuni invece di altri. 

L'operaio non dimenticava mai di far parte di una razza umana accessoria, di nessun valore, subordinata al ristretto mondo della fabbrica. L'operaio non dimenticava di dovere ubbidire a ordini incomprensibili.

L’angoscia dell’operaio era la conseguenza di un dramma, la premessa di un dramma. Era affanno mentale, afflizione fisica, disagio economico. Era accorgersi dell’inutilità delle cose senza avere ricevuto gli strumenti con cui comprendere l’inutilità delle cose, era rendersi conto della precarietà della condizione umana senza essere stati educati a tollerare la precarietà della condizione umana, era indovinare l’esistenza di solitudine, morte, amore, vergogna, dolore, senza sapere come difendersi da solitudine, morte, amore, vergogna, dolore. L’angoscia dimenticata dell’operaio andrebbe insegnata nelle scuole della Repubblica.

La storia che racconti, oggi non dovrebbe ripetersi: i comitati non sono più disposti a vendere la pelle. Ma l’amianto e il suo smaltimento restano invece un problema ancora attuale…

Grazie all’attività del Comitato ho raccolto le testimonianze di molti operai, delle loro famiglie. La storia – la tragedia – di migliaia di uomini e donne che in Italia continuano a morire in una guerra dimenticata. Il mancato riconoscimento del diritto alla salute e alla sicurezza nei luoghi di lavoro è stato un vero trauma per gli operai che attraverso le loro malattie manifestano rabbia. I comitati hanno preteso dal sindacato che la salute non avesse prezzo, che non si barattasse più la vita con un salario per altro da fame. Il primo compito delle organizzazioni operaie è quello di rifiutare la monetizzazione dell'esistenza. 

L’amianto non è purtroppo un problema del passato, è un problema del presente e del futuro ed è una vera emergenza, sociale, ambientale, sanitaria, a cui bisogna rispondere adesso, subito. Il pericolo è ormai riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità che ha previsto il picco delle morti fra il 2020 e il 2030, dal momento che la latenza della malattia (il mesotelioma) è anche di 40 anni. Nasce da qui la necessita di bonifiche aziendali e ambientali. 

Ma la denuncia delle malattie contratte in fabbrica è anche l'inizio di un percorso rivendicativo. Gli operai ripetono a ogni incontro che il mesotelioma ha dato un nome alla loro malattia, ma che sarebbero morti comunque, morti di fabbrica, e ribadiscono che è lo sfruttamento del lavoro a causare decessi, malattie, infortuni, e una nocività che nuoce agli operai ma anche alla popolazione che abita vicino agli impianti. Il caso Ilva è emblematico.

La fabbrica del panico ha vinto il Campiello Opera Prima. Un libro che parla di fabbrica e morti sul lavoro è stato premiato dagli industriali del Veneto. Un segnale forte.

Sono molto felice del Premio Campiello Opera Prima, tanto più felice perché credo che con questa decisione la giuria abbia voluto premiare una tendenza nella produzione narrativa italiana: la narrazione sociale – narrativa d'inchiesta o romanzo civile – una forma di narrazione che conferisce valore inedito al romanzo e al racconto. Un racconto che tenta di colmare il vuoto lasciato dall'informazione giornalistica e dalla narrativa commerciale uniformate al mercato. La narrazione sociale ha lo scopo di raccontare le storie che non hanno voce.

Dove ti chiedono di presentare il libro? So che incontri spesso i ragazzi delle scuole…

Ho fatto decine di presentazioni de La fabbrica del panico, un percorso militante voluto dai comitati, dalle associazioni, dai sindacati. Il romanzo mi ha portato in tutta Italia e ha prodotto una grande catarsi emotiva. Indimenticabili, tra le altre, le presentazioni di Sesto San Giovanni, Casale Monferrato, Pistoia, città tristemente note nella storia italiana dell'amianto. 

Negli incontri i ragazzi hanno dimostrato grande attenzione e incredulità. Per chi non è infettato dal cinismo le morti da amianto risultano inammissibili.

“Prima di dedicarsi al colore viveva immerso dentro la paura”. La bellezza del libro risiede anche in questo doppio sguardo: l'angoscia viene interrotta da brevi intervalli di pace. La sintesi è nella figura di tuo padre, che si muove tra il respiro dell’arte e il peso della fabbrica e della malattia. 

L'intenzione del romanzo è anche raccontare la necessità di realizzarsi nonostante le paludi di classe. Come ribadisce il figlio nel raccontare il rapporto del padre con la pittura: “Quando dipinge non avverte la necessità di altro. Non avverte la necessità del mondo, degli elementi cosiddetti naturali, non avverte la necessità di mangiare, di dormire. Non ha paura quando dipinge. Un’immensa forma di autostima cavalca gli spazi della pittura e quando dipinge non ha paura”.

Francesca Boccaletto

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012