SCIENZA E RICERCA

La memoria del caffè

Per la Chiesa era la “bevanda del diavolo”, “vino d’Arabia” per gli europei. Fu celebrato da pittori come Munch, Renoir, Guardi, da scrittori come Goldoni fino a musicisti come Bach. Si tratta del caffè, apprezzato come bevanda da nobili e intellettuali che si incontravano nelle caffetterie per discutere di politica e costume, ma usato anche come medicinale per le sue proprietà stimolanti e descritto per la prima volta nel 1592 da Prospero Alpini, prefetto dell’Orto botanico di Padova dal 1603 al 1616, nel suo De plantis Aegypti.

Che la caffeina sia un’eccitante capace di migliorare il livello delle prestazioni cognitive è ormai risaputo, quello che finora non si conosceva era il suo effetto sulla memoria a lungo termine. Ne parla una ricerca pubblicata in questi giorni su Nature Neuroscience, coordinata da Daniel Borota della John Hopkins University di Baltimora, secondo cui assumere poco più di due tazzine di caffè dopo lo studio, consoliderebbe il ricordo di quanto si è appreso. “Fino a questo momento – sottolineano gli studiosi – la ricerca aveva dimostrato scarsi effetti sulla memoria a lungo termine, ma la caffeina era stata somministrata prima, non dopo la prestazione cognitiva e questo rendeva difficile separare gli effetti sulla memoria a lungo termine, da altri quali l’attenzione, la vigilanza, la velocità di ragionamento”.

Il gruppo di ricerca ha sottoposto 160 volontari, tra i 18 e i 30 anni non abituali consumatori di caffè, a un test cognitivo che prevedeva la memorizzazione di alcuni oggetti. Dopo il test ad alcuni sono stati somministrati 200 milligrammi di caffè, ad altri del placebo. A distanza di 24 ore i soggetti dovevano riconoscere, tra una seconda rosa di oggetti, quali erano uguali ai primi e quali invece solo simili. L’esperimento dimostrò che, pur non essendovi alcuna differenza tra chi aveva assunto la caffeina e chi placebo nel riconoscimento degli oggetti uguali, i primi avevano una migliore capacità di individuare gli oggetti simili che invece i secondi indicavano come già visti. Questo dimostrerebbe, sottolineano gli scienziati, che più che agire sulla memoria in sé la caffeina avrebbe effetti sul consolidamento del ricordo dell’informazione acquisita.

“L’apprendimento – spiega Edoardo Casiglia, docente del dipartimento di medicina dell’università di Padova – si articola in tre fasi: l’ascolto, la comprensione e il ricordo. Per ricordare è necessario che le informazioni entrino nella memoria a breve termine e qui vengano consolidate (ripetere, ad esempio, è un buon metodo): questo rende possibile il successivo passaggio alla memoria a lungo termine. Lo studio di Borota dimostra che la caffeina agisce proprio in questa fase, facilitando l’ingresso del ricordo nella memoria a lungo termine”.  Si deve tener presente, però, che lo studio prende in esame un compito cognitivo semplice. Come se uno studente di medicina dovesse ricordare il nome delle ossa umane o uno di lettere l’elenco delle opere di Leopardi. Diversa è la memorizzazione di un testo, ad esempio, che richiede un’operazione più complessa. 

A cosa sia dovuto questo specifico effetto sulla memoria a lungo termine non è del tutto chiaro, ma i ricercatori ipotizzano che la caffeina possa facilitare il rilascio dell’ormone dello stress (la noradrenalina), coinvolto nel consolidamento del ricordo, andando a inibire una sostanza in circolo nel nostro corpo (l’adenosina) che solitamente invece distrugge questo ormone.

“Si tratta – sottolinea Casiglia – di una ricerca molto interessante, perché per la prima volta la caffeina viene somministrata dopo la fase di apprendimento. È, tuttavia, un studio di partenza che richiede ulteriori approfondimenti. Si sa, ad esempio, che la memoria è rafforzata dal sonno: poiché lo studio prevede che la verifica dell’apprendimento avvenga dopo 24 ore, si dovrebbe valutare quindi se il sonno influisce sugli effetti della caffeina. A ciò si aggiunga che le persone possiedono un gene, il CYP1A2, che determina una diversa metabolizzazione della caffeina da individuo a individuo”. Studi successivi dovrebbero tener conto anche di questo.  

Monica Panetto

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