CULTURA

La nascita del mondo atlantico

È opinione diffusa, sia tra gli studiosi che nella società, che l’apertura delle rotte oceaniche a partire dalla fine del XV secolo abbia segnato un punto di svolta nella storia mondiale, dando inizio a quell’egemonia del mondo occidentale che, tra fasi alterne, è durata fino ad oggi. Come fu affrontato quel sommovimento dai popoli non europei, che quella egemonia avrebbero sopportato? È questo il punto di partenza di un ampio studio di John Thorton, pubblicato la prima volta 20 anni fa a Cambridge e recentemente tradotto anche in italiano (L’Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico 1400-1800, Il Mulino, Bologna 2010).

In realtà i cliché che vedono gli africani esclusivamente in una posizione succube e passiva si scontrano con la realtà storica: quando i primi viaggiatori europei vengono a contatto con i popoli subsahariani l’Africa occidentale è già provvista di una solida rete di scambi interni, oltre che di tecnologie, conoscenze e sistemi politici tutt’altro che privi di solidità. Salvo singoli casi, come l’occupazione portoghese dell’Angola, fino al 1800 il rapporto non fu dunque così squilibrato da permettere la colonizzazione sistematica, come invece accadde fin dal principio nelle Americhe. In quella che Thorton chiama “la costituzione del mondo atlantico” gli africani ebbero quindi un ruolo tutt’altro che trascurabile:  a questo riguardo l’autore prende posizione contro ricostruzioni che, come quelle di Walter Rodney e di J.D. Fage, esagerano a suo modo di vedere gli effetti negativi delle relazioni atlantiche per le società e le economie subsahariane, a cominciare dalla famigerata tratta degli schiavi.

In particolare “La tratta degli schiavi (e il commercio atlantico in genere) non fu una sorta di ‘impatto’ esercitato dall’esterno né fu un fattore esogeno nella storia dell’Africa”, scrive l’autore. “Al contrario – continua – la tratta nacque nelle società africane e fu razionalizzata al loro interno. Esse contribuirono in modo decisivo al funzionamento della tratta e ne ebbero il controllo totale almeno fino alla fase in cui gli schiavi venivano caricati sulle navi europee per essere poi trasferiti nelle società atlantiche”. Secondo l’autore, l’economia schiavistica fu esclusivamente determinata da ragioni di carattere economico, a cominciare dall’assenza o dallo scarso sviluppo della proprietà terriera nelle società africane, che rendeva gli schiavi l’unica forma di proprietà privata capace di produrre reddito riconosciuta dalla leggi.

Una ricostruzione questa che, per quanto corretta, in varie parti del libro rischia di assumere le tinte di un’autoassoluzione: come se il fatto di essere i meri “utilizzatori finali” della schiavitù esonerasse le nazioni occidentali da ogni responsabilità morale, oltre che giuridica. Tanto più che l’autore non indaga sul perché gli europei, a differenza di guineiani ed arabi, non riducessero in schiavitù i loro simili: il rischio è di mettere in ombra il profondo razzismo sotteso al commercio degli schiavi africani. Un’ideologia, quella razzista, tanto forte da essere capace, un secolo dopo liberazione degli schiavi, di continuare ad alimentare la segregazione in molti stati americani. Sarebbe forse stato lecito aspettarsi un comportamento diverso da parte di paesi che si dichiaravano cristiani e che già da qualche secolo si erano dotati della Magna Charta. Su questo punto però Thornton glissa, talvolta dando l’impressione di un qualche intento apologetico e polemico.

Per il resto il libro ha il merito di tentare di restituire, sulla scia di Fernand Braudel e della sua scuola, la complessità del fenomeno degli incontri e degli scontri tra europei e africani al di là dei luoghi comuni. La seconda parte dello studio si concentra soprattutto sulla vita degli schiavi nel Nuovo Mondo: in particolare sul loro ruolo nella nascente economia coloniale, assieme ai loro compiti e alle loro condizioni di vita. Nel nuovo contesto gli africani sono costretti a elaborare una nuova cultura, che adotta un linguaggio europeo ma che indubbiamente affonda le radici nella terra di origine. Il risultato, secondo l’autore, è la nascita di una cultura “afroatlantica” che, pur non essendo sempre omogenea, ha costituito in qualche modo un trait d’union tra gli africani di entrambe le sponde dell’Oceano.

Un patrimonio di conoscenze e di esperienze destinato a rivelarsi fondamentale nel melting pot americano, contribuendo in maniera determinante all’immaginario condiviso nell’ambito delle espressioni popolari (come religiosità, musica e danza), per poi allargarsi sempre più negli ultimi decenni anche ai campi dell’arte, della scienza, dell’economia e della politica. Un cammino di integrazione e di arricchimento che non appare ancora concluso, come ad esempio evidenziano le polemiche che periodicamente riaffiorano, alimentate da parti contrapposte, intorno alla figura del presidente Barack Obama: ora accusato per le sue radici razziali e religiose, ora dipinto come un “criptobianco”, per il fatto di non discendere dagli schiavi e per la sua formazione familiare e culturale. Un simbolo comunque evidente della forza e delle contraddizioni a cui dà sempre luogo l’incontro di due culture diverse.

 

Daniele Mont D'Arpizio

 

Scheda del libro sul sito dell’Editore

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