CULTURA

La resistenza in una sola stanza

È da poco nelle librerie Una costituente per l'Europa (Castelvecchi, 2013), volume che raccoglie nella loro interezza gli scritti dell'ultima, densissima stagione del pensiero di Simone Weil: il periodo fra l'arrivo a Londra nell'autunno del 1942 e la morte, neppure 10 mesi dopo, in un ospedale inglese. Si tratta di un tassello importante nel panorama tuttora disomogeneo delle opere della Weil disponibili in italiano: gli scritti londinesi – questo il sottotitolo – avevano conosciuto finora una pubblicazione frammentaria, che rendeva difficile afferrarne l'unità tematica e la tensione. Grazie a questa raccolta è ora possibile leggerli insieme, affiancando ai lavori maggiori e in buona parte già disponibili (seppur, spesso, di difficile reperibilità quando non fuori catalogo) note, lettere e diversi inediti. A risultare immediatamente evidente è la forte unità interna che contraddistingue gli scritti: un carattere che ha fatto da guida ai curatori Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito nelle scelte di traduzione e di organizzazione del materiale, permettendo loro di scostarsi in diversi casi da quanto fatto in precedenza, e che trasmette immediatamente l'impressione di trovarsi di fronte al compimento, non solo temporale e contingente ma anche tematico, della riflessione di Simone Weil.

Abbandonata la Francia di Vichy per gli Stati Uniti, solo dopo molte insistenze e per mettere al sicuro i genitori, Weil aveva raggiunto presto a Londra i resistenti di France Combattante, riuniti attorno al generale De Gaulle, nella speranza – presto rivelatasi vana – di essere inviata nella Francia occupata. Intellettuale conosciuta e militante della sinistra antistalinista, nota per la sua levatura e intransigenza, non era certamente un candidato ideale per la lotta partigiana sul campo. Nel 1936, la sua partecipazione alla guerra di Spagna era finita in breve quando, arrruolatasi come non combattente fra le fila degli anarchici della Colonna Durruti, si era gravemente ferita nelle retrovie per pura sbadataggine. Né la aiutava il progetto, presto rifiutato dalla resistenza, di un contingente di infermiere di prima linea, pensato per contrapporre l'eroismo dell'abnegazione e della cura al coraggio votato alla morte delle Ss di Hitler. Assegnata a un compito strettamente intellettuale, l'analisi dei progetti di riforma costituzionale che da più parti venivano avanzati per il Paese una volta liberato, si trovò così a “fare la propria resistenza in una sola stanza”.

È in questa sospensione dell'azione che prendono forma le riflessioni contenute in questo volume: spesso sorprendenti, personali fino all'intransigenza, caratterizzate da una tensione morale e da una domanda di giustizia che attraversa costantemente la sua scrittura. Alla base, un vuoto che la guerra aveva reso evidente e ineludibile: l'accartocciarsi delle tradizioni politiche – forme organizzative, visioni del mondo, concetti guida – che avevano dato forma alla Francia, e all'Europa pre-bellica. Di qui la necessità di costruire su basi nuove, ideali e morali. E se la situazione – categorie politiche che fino a poco prima parevano assolutamente adeguate, e che ora si mostravano vuote – arriva ad apparirci perfino familiare, la risposta, che queste pagine tese fra politica e mistica ci restituiscono, risulta per molti versi ancor oggi sorprendente.

Quella della Weil è una ricerca assolutamente singolare, ma non isolata. La lacuna della politica da cui parte è la medesima di cui qualche anno dopo ldirà Hannah Arendt, riguardo a un altro resistente, il poeta René Char. Una lacuna che aveva risucchiato gli uomini di cultura come un vuoto pneumatico portandoli all'impegno pubblico. E il ritorno della Arendt alle radici greche nell'agire e nello spazio pubblico è, a modo suo, una soluzione quasi altrettanto spiazzante  di quella di Simone Weil, una scelta di rottura rispetto a categorie consolidatesi dall'illuminismo in poi. Similmente, nella critica radicale dell'autrice al concetto di forza – immanente alla politica moderna e punto debole irredimibile del diritto – risuonano echi della Critica della violenza di Walter Benjamin, un testo allora semi-sconosciuto.

La violenza divina che questi chiama a porre fine al diritto-sopraffazione è certamente diversissima rispetto al sacro e all'empatia con il dolore della Weil. Entrambi però si pongono su un piano trascendente: e vi attingono il fondamento per rifiutare legittimazione al potere. Per l'uno è la giustizia divina, compito del Messia della teologia ebraica e destinata a dissolvere ogni sopruso; per l'altra, la sacralità della vita, che tutti accomuna e che ognuno può riconoscere nell'altro. E analogo risulta il giudizio sul diritto come base dell'ordinamento politico: da rigettare, perché irrimediabilmente segnato dalla sopraffazione che vorrebbe limitare.

Né il concetto di persona, né quello di diritto, dice Simone Weil, possono porre remore a chi vuole operare il male: solo il riconoscimento, nell'altro, del “grido muto” che egli ci rivolge, la domanda "Perché mi si fa del male?", è davvero in grado di trattenerci. Ed è questo fondo nascosto, che trova spazio nell'essenza impersonale di ognuno di noi, nella singolarità e interezza di ogni essere umano, a costituire il sacro in ciascuno e a dare, forse, la possibilità di rifondare la politica su obblighivincolanti per tutti. Nonostante le assonanze, Weil si pone qui molto lontano dal personalismo di Mounier e Maritain, come dal sacro di Bataille.

Sono, questi, i temi che troviamo condensati nel breve saggio dal titolo La persona è sacra?, al cuore della ricerca di Simone Weil. Non a caso il saggio che i curatori hanno messo in chiusura, ritenendolo inequivocabilmente il punto d'arrivo del suo pensiero, che la morte della Weil ha trasformato in testamento spirituale. Uno scritto che, più ancora del saggio sui partiti politici o dell'analisi tagliente del marxismo, può arrivare a respingere, a una prima lettura. Salvo cambiare aspetto – come sottolineano i curatori – quando si vede che non impone risposte, ma è costruito, come gli altri, attorno a una interrogazione: "Ci avvicina, questo, al bene?". Sta al lettore accettare la sfida, prima di tutto con se stesso, accogliendo il cambiamento che la risposta, quando viene trovata, provoca in lui.

In questa accezione, il piano scelto da Simone Weil in questi scritti è forse più vicino alla filosofia antica o agli esercizi spirituali di quanto non lo sia al pensiero analitico cui siamo abituati. E forse proprio qui risiede la sua capacità, per certi versi sorprendente, di interrogarci ancora.

Michele Ravagnolo

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