SCIENZA E RICERCA

La salvezza sta nelle abitudini

Decidere è esattamente come correre: si tratta di uno sforzo e la capacità di prendere buone decisioni non è illimitata ma si esaurisce nel corso della giornata. Alla base di questa scoperta c’è il concetto di fatica decisionale, un’idea ampiamente sviluppata in Willpower: Rediscovering the Greatest Human Strength, un libro del 2011 scritto dallo psicologo sociale Roy Baumeister e dal divulgatore scientifico John Tierney. Nell’opera vengono descritti degli esperimenti che mostrano come la capacità di compiere buone scelte vada riducendosi man mano che queste vengono fatte. Il buon decision making non è un tratto permanente, ma una condizione che varia. Uno degli esperimenti più interessanti proposti nel libro riguarda uno studio sul rilascio di permessi ai detenuti delle carceri israeliane: al netto delle diversità dei singoli casi, i detenuti il cui dossier veniva discusso all’inizio della mattinata ottenevano il rilascio sulla parola il 70% delle volte, contro il 10% di coloro che venivano convocati in audizione verso il termine della giornata lavorativa dei giudici (sarebbe interessante studiare se questo vale anche per i voti degli studenti che fanno l’esame in momenti diversi di una sessione affollata). Secondo i due studiosi, la capacità di prendere buone decisioni è negativamente correlata con la stanchezza mentale e dipendente dal livello di glucosio presente nel sangue. Anche qui, per poter scegliere al meglio, il consiglio è quello di organizzare meticolosamente le proprie giornate. Ridurre al minimo le scelte poco rilevanti, in modo da poter concentrare le energie mentali sulle decisioni importanti.

Per esempio, salvaguardare le sue energie mentali, Obama ha ammesso in una intervista a Vanity Fair di cercare di limitare il più possibile le decisioni di minor conto, che sono soprattutto quelle che riguardano la sua sfera privata. Al giornalista Michael Lewis ha detto di vestire solo completi grigi o blu, da indossare a giorni alterni. Di seguire una dieta prestabilita, poiché non vuole sprecare energie nel dover decidere tre volte al giorno cosa mangiare. Allo stesso modo, la sua sessione ginnica mattutina è organizzata metodicamente: i giorni pari fa pesi, quelli dispari si dedica all’allenamento aerobico. Una dettagliata routine, probabilmente noiosa, ma che permette al presidente di ridurre al minimo lo spreco di energie mentali destinate alle decisioni irrilevanti e di preservare lucidità per le scelte da effettuare come guida della nazione.

La conseguenza del dover compiere delle scelte quando se ne sono già prese troppe durante la giornata è quella di tendere sempre a scegliere la soluzione meno rischiosa. Si tratta di una deduzione del tutto simile a quella a cui è arrivato il premio Nobel Daniel Kahneman che, nel suo Pensieri Lenti e Veloci, ha mostrato come l’uomo tenda a essere troppo cauto nelle decisioni, proprio perché sconta un’innata scarsa propensione al rischio. La stanchezza e l’usura mentale porterebbero quindi l’individuo a non rischiare e, di conseguenza, a non cercare soluzioni innovative. Proprio come nell’esempio dei permessi ai detenuti israeliani. Un ulteriore contributo sull’argomento arriva dai lavori di Jan Rivkin, docente alla Harvard Business School ed esperto di interazioni decisionali negli ambienti di lavoro. Secondo Rivkin, ogni contesto nel quale ci si trovi a prendere decisioni è naturalmente refrattario alle novità. E quindi, per incidere proficuamente su di esso, occorre profondere il massimo sforzo decisionale, consentendo a tutti gli “attori” coinvolti di compiere le scelte al meglio delle proprie energie mentali. Sul punto, un originale suggerimento arriva da un recente studio realizzato da psicologi dell’Università di Chicago: quando in un team si comunica in una lingua che non è quella nativa, si riescono a prendere migliori decisioni, perché lo sforzo cognitivo non viene inficiato dagli automatismi e dai pregiudizi culturali che la lingua primaria porta con sé. Questo suggerimento non potrà però essere seguito da Obama, che ha più volte ammesso di vergognarsi un po’ nel conoscere soltanto la lingua inglese. L’attuale inquilino della Casa Bianca non è certo un’eccezione: per risalire all’ultimo presidente americano che avesse una buona padronanza di almeno una lingua straniera bisogna andare indietro nel tempo di quasi 70 anni. Franklin Roosevelt era infatti a suo agio sia nel parlare in tedesco che in francese.

Marco Morini

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