SOCIETÀ

La verità non ha alcuna importanza

Facciamo un passo indietro: i giornali possono permettersi di ignorare il lavoro di chi è in Siria o in Egitto perché, paradossalmente, gli Esteri non sono più importanti nell’economia dei quotidiani. I giornali perdono lettori e cercano di tenersi quelli che hanno, o di riconquistarli, con gli inserti di cucina, viaggi, moda, tempo libero. I siti web puntano sulle notizie di  sport, sulle foto dei calciatori e delle modelle, sul gossip (verificare cosa appare nella parte destra dello schermo sui siti di Corriere e Repubblica, per esempio). L’imperativo è dare notizie brevi, leggere: l’erede al trono inglese che dovrebbe nascere in queste ore è perfetto, chi ha voglia di sciropparsi una lunga analisi sulle forze in campo in Egitto, o in Afghanistan?

Questa trasformazione culturale ha progressivamente emarginato i grandi inviati che sapevano di cosa parlavano: la generazione degli Ettore Mo (Corriere), Bernardo Valli e Sandro Viola (Repubblica), Valerio Pellizzari (Messaggero, poi Stampa), Domenico Quirico e Mimmo Candito (Stampa), Enzo Bettiza (Corriere, poi Giornale) Tiziano Terzani e Maurizio Chierici (Corriere). Oggi sono scomparsi, pensionati o, se ancora in servizio, poco utilizzati: tra questi solo Valli e Quirico hanno vissuto le primavere arabe in prima linea; Quirico è poi andato in Siria, dove è stato rapito il 9 aprile e si spera che sia ancora vivo.

Si tratta di una generazione senza eredi: oggi ai giornali non interessano le analisi approfondite, perché “nessuno le legge”, men che meno i politici o gli imprenditori a cui sarebbero destinate: la crisi di questo giornalismo fatto di serietà, approfondimento, verifiche incrociate, fa parte della crisi di classi dirigenti italiane ormai sempre più evanescenti e incolte, come emerge da un recente studio del Censis. Rinunciare ai talenti dei “vecchi” ha qualcosa a che fare con le figuracce internazionali che collezioniamo a ripetizione: dal caso dei marinai italiani arrestati in India per l’uccisione di due pescatori, fino al rimpatrio forzato della moglie e della figlia di un dissidente kazako. Qualcuno crede davvero che al ministero degli Interni sappiano dov’è il Kazakistan?

Ci sono poi le trasformazioni tecnologiche: oggi basta un telefonino per mandare testi, immagini, suoni. Per fare un copia/incolla delle notizie di agenzia qualsiasi stagista è sufficiente. Ma questo processo non è iniziato ieri: piuttosto risale a quando la CNN portò in tutte le case la prima guerra del Golfo (1991). Da allora, le immagini dai fronti di guerra arrivano comunque e non ha nessuna importanza se sono immagini prefabbricate dagli stati maggiori o servizi di giornalisti embedded, cioè legati mani e piedi ai militari con cui viaggiano. In guerra c’è poco spazio per i dubbi, i dibattiti, l’analisi delle ragioni delle due parti: ai giornalisti si chiede di incontrare i colonnelli e gli ambasciatori e di abbondare con le invettive contro il nemico e le celebrazioni dell’eroismo dei “nostri”. C’è poco spazio, soprattutto, per la ricerca della verità. 

Modello: Oriana Fallaci, che all’indomani dell’11 settembre scriveva: “Non lo conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila…?) Gli americani non lo diranno mai. Per non sottolineare l’intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin Laden”. La Fallaci scriveva il 29 settembre, quindi 18 giorni dopo il crollo delle torri gemelle, quando era abbondantemente chiaro che, per l’eroismo dei pompieri di New York e per una serie di fortunate circostanze, il numero di morti era stato limitato. Il bilancio finale della tragedia sarebbe stato di 2.997 vittime, 15 volte di meno la stima della scrittrice: “La Rabbia e l’Orgoglio” merita di restare come il punto più basso toccato dal giornalismo italiano da decenni.

Il compito assegnato oggi ai giornalisti è raramente quello di capire e spiegare, quindi il caso dei freelance italiani si inserisce in una crisi che parte da lontano. 

Fabrizio Tonello

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